Anno 0 Numero 06 Del 28 - 5 - 2007
Senza Rodrigo
Esta’ bien: come perdere uno spartito e riscrivere se stessi

Attilio Scarpellini
 

Sembra che lo scat, quel particolare modo di cantare senza parole che rese famoso Louis Armstrong, sia nato perché, durante una registrazione, dal leggio di Satchmo era scivolato via lo spartito. L’Esta’ bien di Milena Costanzo e Roberto Rustioni non è un’improvvisazione, bensì uno spettacolo di creazione dei due attori che hanno a lungo militato nel teatro di Giorgio Barberio Corsetti, ma, in origine, anche ai suoi due atletici protagonisti qualcuno ha tolto lo spartito da sotto il naso. Non so se si debba a questa circostanza la dichiarazione di odio che a un certo punto dello spettacolo, mentre Rustioni è lanciato in un tipico catalogo di idiosincrasie à la Rodrigo Garcia, colpisce la “società italiana autori e editori” (ma nel caso sottoscrivo: non credo, come diceva Brecht, alla proprietà privata dell’opera di ingegno), so per certo che l’esser nato per sottrazione, nei margini bianchi di un testo trafugato, e poi forse per negazione, da una liberazione di energie teatrali imprevedibili, non è l’ultimo dei fascini di questo secondo Està bien. Perché, alla fine, non è tanto nel testo (completamente riscritto, ma non significa: ogni riscrittura è soltanto un originale e per questo il plagio resta, come diceva Giraudoux, il peccato originale della letteratura), quanto nella temperie scenica che si celebra la vera, la felice mésalliance tra il teatro di Costanzo e Rustioni e quello di Rodrigo Garcia. E si celebra, come è ovvio, in ciò che è più simile, a cominciare dall’uso parossistico del corpo. Basta non lasciarsi ingannare dalle estenuanti riprese pugilistiche contro tutti e nessuno che spezzano di tanto in tanto le invettive parallele dei due archivisti che, uno a fianco all’altro, ciascuno chino sul suo tavolo e rinchiuso nel suo universo di libri e di carte, lavorano a una rassegna apocalittica dei luoghi comuni che inquinano l’esistenza loro e del mondo: questi pugni sferrati all’aria sono lo sfogo di due creature impacciate che restano sigillate nei loro abiti retrò e impiegatizi – lui con le bretelle e la camicia sempre fuori dai pantaloni, lei accollata come una maestrina – anche quando tentano la nudità o ammiccano a un erotismo senza glamour, comicamente fuori portata per entrambi. Della bellezza morbida, capziosa, soffusa di luci gelide che il regista argentino utilizza per sottolineare gli osceni connubi tra i corpi dei suoi attori e le merci, soprattutto gli alimenti che sempre abbondano nel suo teatro (come nei nostri frigidaire), qui non c’è traccia: persino nel suo disfarsi finale, la scena di Costanzo e Rustioni non ricorda la sontuosa catastrofe barocca che in un’orgia di detriti chiude molti spettacoli di Garcia, ma piuttosto la catastrofe intellettuale, novecentesca, delle Sedie di Jonesco. Quella dei due eroi di Està Bien è una fisicità interpretata che, come un riflesso condizionato da marionetta, scatta dalle falle e dalla fallacia del linguaggio per rotolare in un luogo che non è l’assurdo, il non sense, ma il fallimento esacerbato della presa del senso sulla vischiosità di un mondo che fa il contrario di quello che dice e dice il contrario di quel che pensa. Eppure neanche il format dell’invettiva, il gusto del ribaltamento, i raptus del politicamente scorretto, l’esuberanza vitalistica della negazione bastano a suturare la ferita che lo spettacolo lascia colare fino all’ultima goccia, fino a non darsi più parole, ma soltanto una voce che insegue fuori tempo una canzone registrata. Su Està bien aleggia la stella tremula della malinconia, un’ironia che sa di romantico, una bestemmia anti-teistica che, quando il corpo di Milena Costanzo accoglie come scariche elettriche le storie dei sopravvissuti di Beslan, rivela senza più mascherarlo lo scandalo umanistico da cui proviene. Nella controluce di questa clownerie che puntualmente si svuota lasciando intravedere il suo fondo di irredimibile tristezza, il vero spettro che allarga smisuratamente le sue ali non è tanto il Bush stigmatizzato con l’enfasi satirica di Harold Pinter e nemmeno il Papa che “proprio lui” si oppone ai Dico – questi sono solo i sintomi di una “banalità del male” che è divenuta lingua, senso comune, alibi quotidiano. E che divora il soggetto. Perché Està bien è uno spettacolo sullo stato liminale della soggettività dove gli attori non sono né officianti né imbonitori di una critica spettacolare. Ma persone colte nel momento della loro eclisse, archivisti alienati che cercano di ricomporre i frammenti di una memoria appena esplosa – se si vuole, sono ancora personaggi che, ogni tanto, restano incantati sul vago ricordo, sulla flebile luce di quel che, malgrado tutto, sono stati.