Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 0 Numero 06 Del 28 - 5 - 2007 |
Altri tempi? |
Storia di lavoro al presente storico nel 50 lire di Vaselli |
Mariateresa Surianello |
E’ un documento sulla memoria quello che Ferdinando Vaselli torna a mettere in scena nella vetrina di Teatri di vetro. Uno scavo nella memoria di un territorio, l’alto Lazio, con le sue fabbriche di ceramica, che quel territorio hanno caratterizzato e segnato a partire dal dopoguerra. Una piccola storia operaia, raccontata con toni pacati e grande spirito di appartenenza, anche nella scelta linguistica. Con 50lire, Vaselli compone un testo vivo, antiletterario e colloquiale, infarcito di espressioni dialettali che lo rendono fluidissimo e godibile, nonostante il significato sia spesso durissimo sul piano della denuncia sociale. Una ventina di rotoloni di carta asciugatutto affollano il palcoscenico, insieme a colonnine di piatti impilati, mentre sulla destra troneggia un candido e brillante water, elemento scenico centrale e significante, accanto al quale Vaselli avvia il suo placido monologo. Nel “paese in cui tutti costruiscono cessi” si svolge la vicenda, a Civita Castellana, dove l’industria laterizia ha regalato sviluppo economico, intaccando per sempre la salute dei lavoratori. Già negli anni Cinquanta la silicosi faceva la sua comparsa tra gli ignari ceramisti che, nel vortice della ricostruzione, entravano in fabbrica a quattordici anni come “fattoretti”. Con questo incarico varca la soglia di una delle tante piccole aziende civitoniche il protagonista di 50lire, che racconta il fervore di una corsa a cancellare le miserie della guerra fascista e l’amore artigianale nella costruzione di quei sanitari. Lavandini, tazze, bidet che sarebbero stati installati nelle case degli italiani, molte delle quali oramai fornite di bagno. Attraverso un lessico icastico, prende forma una lingua poco frequentata a teatro, che ascoltata da Roma ha un gradevole sapore “burino”. Una lingua funzionale, necessaria a recuperare l’humus di una comunità operosa e la lotta dei lavoratori per il riconoscimento dei diritti minimi. E dagli scioperi per l’aumento del salario – cinquanta lire al giorno – prende il titolo lo spettacolo. Tutto questo slancio nella ricostruzione nazionale e nella costruzione di stoviglie e sanitari l’autore-attore lo rende attraverso una mobilità incessante, una partitura fisica che è vera ginnastica, per spostare rotoloni di carta e pile di piatti da un lato all’altro della scena, dal fondo al boccascena e viceversa. Indossa pantaloni e canottiera bianchi, questo giovanotto in apparente stato di sana e robusta costituzione, ma a un tratto si arresta e chiede scusa al pubblico per quell’accesso di tosse, che lo porta ad affondare la testa proprio in quel cesso brillante, e a sporcarlo di vomito. Non è niente, tranquillizza il narratore, è «un minuto di silicosi», come lui ne sono affetti tanti di operai. E’ il rovescio della medaglia, lo scotto da pagare per un posto di lavoro. Nelle fabbrichette rudimentali della prima ora, quei cessi venivano costruiti a mano dall’argilla grezza, infornati e rifiniti con la carta vetrata. Si scartavetrava e si soffiava fino a renderli lisci come il velluto. E chi ci pensava a quella polvere micidiale di silice che entrava nei polmoni... Crea un momento di grande poesia Ferdinando Vaselli, rievocando, con quei soffi ripetuti, le nuvolette pestilenziali che intasavano l’aria. Ma il ritmo colloquiale di 50lire riprende per raccontare la fatica del lavoro davanti ai forni e il dovere di sopportare quel calore infernale per sposare la donna amata. Dal registro serio l’autore-attore passa al comico e una soggettività semplice e gentile si mostra con tutta la sua forza positiva, in un continuo alternarsi di emozioni, dagli slanci verso la famiglia da formare alla volontà di migliorare la propria condizione di lavoro. Ma è un’illusione, anche quando gli operai in sciopero per le cinquanta lire decidono di lasciare il padrone e mettersi in proprio. Nasce così una delle tante piccole fabbriche della zona, la Flaminia Ceramiche, con venti operai-padroni di se stessi. Tutti e venti avevano la chiave dell’azienda (forse il nome della compagnia di Vaselli, Ventichiaviteatro, deriva proprio da questo passaggio drammaturgico) e sarebbero potuti entrare per lavorare liberamente ai sei pezzi al giorno che si era prefissati di costruire. Ma le richieste crescono e la produzione deve aumentare, così come l’orario di lavoro. Erano altri tempi, dice con ironia il narratore, oggi suo figlio è amministratore delegato di quella fabbrichetta. E noi aggiungiamo che ancora oggi la polvere di silice resta per i lavoratori del viterbese, l’agente di rischio maggiore per gravi patologie polmonari. Bravo Ferdinando Vaselli a ricordarcelo. |