Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 0 Numero 06 Del 28 - 5 - 2007 |
Il vagabondo del Dharma e gli artigiani dell’illusione |
Marco Solari elegante funambolo tra le generazioni |
Gian Maria Tosatti |
Marco Solari ha davvero qualche anno in più degli altri in questo festival. E la cosa non si vede solo dai capelli bianchi, ma appunto dal senso del suo discorso che ha al contempo una consapevolezza maggiore e una retorica del tutto diversa rispetto ai suoi colleghi di vetro. E’ forse per questo che la stanza di canapa in cui si presenta mi ricorda le capanne arrangiate da Kerouac nei racconti di un’altra gioventù che oggi, in una lingua tutta diversa da quella contemporanea, ha ancora molte cose da dire ai nuovi ventenni. E appunto il romanziere americano mi torna in mente, perché questo spettacolo di istanze rivoluzionarie è uno spettacolo intimo, come intima e tutta personale era la sua versione della rivoluzione beat. Eccolo allora Marco Solari benedetto dai Teatri di Vetro, ricontestualizzato, acquisire quella freschezza che forse altrove, con questo spettacolo non avrebbe avuto. Al Vascello o anche al Rialto, all’Angelo Mai, questo lavoro forse ci sarebbe sembrato un altro sfogo – magari intelligente stavolta – di un artista contro il sistema che paralizza lui, ormai maturo, allo stesso modo degli altri più giovani, ma forse solo meno stanchi. Invece l’ondata vitale di questo festival ha fatto dileguare come per una tregua sacra le ombre che sfiniscono il mondo dell’arte e dato tutto un altro senso al monologare di quello che se non è un padre è sicuramente uno zio dei tanti ragazzi che nei dieci giorni precedenti si sono avvicendati sul palco. Solari non era più l’artista solo che combatte contro i mostri del presente, ma era l’istrione, l’Allen Ginsberg ubriaco che prende per il culo la realtà in mezzo ai suoi amici. Lo guardavo e ammetto che questo è uno dei tre o quattro spettacoli di questo festival che ho applaudito. E mentre lo facevo pensavo che sì, le nostre parole hanno bisogno di tutta la coesione possibile, di essere sostenute dal respiro di tutti, perché il loro segno sia positivo e non disilluso, perché gli attacchi siano incitamenti e non bestemmie. Ho pensato che noi tutti abbiamo bisogno di questa generazione come in quel momento ne aveva bisogno Solari sul palco perché le sue stesse parole, da denuncia diventassero grazia. Elegante, nel buio di una platea, l’attore fugge lo scontato e scantona continuamente tra l’ironico e l’amaro, tra il privato e il pubblico, seguendo la rotta di un altro grande navigatore in solitaria che si chiamava Giorgio Gaber. La sua eredità è ancora una volta nel senso prima ancora che nella struttura solida che fa del ritmo e del cantato l’albero maestro di quest’opera. E di discorso in discorso Solari accavalla passaggi acuti, poeticissimi e duri, come il dialogo assurdo con l’altoparlante, il monologo Quinte armate - che dà anche il titolo allo spettacolo - o il batti e ribatti a lume di torcette fatto assieme a Piergiorgio Faraglia, autore delle musiche in scena. Io me lo guardo e mi rendo conto della differenza fra la sua e la generazione dei Teatri di Vetro. Essa sta tutta nell’autoreferenzialità. Esporsi e farsi metafora attraverso la propria identità è un portato di quella gioventù che ha scardinato il teatro, lo ha rotto, e che si è messa per molto tempo a cercare l’uomo prima dell’attore, e il cui confine temporale (interno) è segnato da artisti come Ascanio Celestini o Roberto Latini (sempre per restare in ambito romano). La generazione di oggi invece sta ricostruendo il teatro e i suoi altrove, i suoi bui, le sue oggettività drammatiche in luogo delle soggettività drammaturgiche. A Teatri di Vetro un artista di oltre cinquant’anni e la nuova scena si riconoscono a vicenda, in tutte le loro stimolanti differenze, i muri tra le generazioni cadono e Quinte armate convince perché oltre ad essere tecnicamente all’altezza ha la freschezza e la lucidità di un Kerouac scoperto oggi da un ventenne. |