Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 01 Del 7 - 1 - 2008 |
Il pubblico, il privato e la società |
Riflessioni a margine del convegno del 13 dicembre fra Teatro Indipendente e istituzioni |
Attilio Scarpellini |
Si è chiuso con una promessa, o come ha precisato lo stesso Silvio Di Francia, con un appuntamento – fissato dalle parti del 10 gennaio – l’incontro del 13 dicembre tra alcuni rappresentanti delle scene indipendenti romane e i loro referenti istituzionali di Provincia (organizzatrice del convegno), Regione e Comune. Una piccola notizia, rafforzata dalla proposta dell’assessore alla cultura della Provincia di Roma Vincenzo Vita di riunire tutte le componenti del tavolo in un forum permanente, che nessuno si è però degnato di riprendere: l’audience del teatro è quella che è, persino in una città come Roma e a dispetto delle statistiche secondo le quali ci sarebbe ormai più gente che frequenta i palcoscenici di quanta non affolli gli stadi. Pochi giorni prima del convegno un’altra piccola notizia aveva cominciato a circolare, questa sì ripresa e sbandierata dai giornali: il teatro privato era in rivolta e, sotto la guida di Maurizio Costanzo, fresco di incarico come direttore artistico del Brancaccio, chiedeva a gran voce la fine del vecchio “teatro del diritto” (come lo chiama Franco Ruffini) e una redistribuzione meritocratica delle famigerate risorse del Fus ai teatri che i numeri ce li hanno sul serio, alle sale che macinano biglietti, pubblico e consenso popolare. Peccato che i due rappresentanti del Ministero attesi al tavolo del Palladium abbiano brillato per la loro assenza, la prima – il sottosegretario di Stato Elena Montecchi – giustificata e sostituita da una lettera più o meno benedicente, il secondo, Salvo Nastasi, limitandosi a segnalare la propria assenza con un silenzio virile e più eloquente (eloquente rispetto alla realtà dei rapporti di potere che di parole non hanno tradizionalmente alcun bisogno) di qualunque lettera. Peccato, non tanto perché al dibattito mancasse in questo modo la sua sponda più istituzionale: l’esplosione territoriale era il suo vero tema e i rappresentanti politici del territorio gli unici interlocutori plausibili di un discorso che in fondo nasce più dalla constatazione dell’avvenuta deflagrazione di un sistema che dall’intento di riformarlo e/o di assediarlo per occupare l’ennesimo Palazzo d’Inverno; ma peccato perché il discorso sull’indipendenza – questa parola che come tutte le emulsioni scaturite da una realtà compressa si è imposta assai prima di riuscire a chiarirsi – è stato privato di una dimensione generale, tarpato e circoscritto nella sua stessa contraddittoria espansione lessicale. Rispetto ai meccanismi sovrani di (re)distribuzione delle risorse (tutte pubbliche) destinate allo spettacolo, comunque li si voglia declinare – sub specie socialdemocratica o liberista, oppure, come la costanziana “voglia di teatro”, capziosamente liberalpopulista - quella modalità artistica e produttiva nota come “teatro indipendente” continua ad essere un’entità fuori-luogo (e per questo, già prima che la discussione del Palladium si aprisse, serpeggiava coté cour l’acuta domanda: “ma cosa vuol dire, poi, indipendente?” posta al solo scopo di stabilire preventivamente l’ambiguità di questa definizione). Fuori da quale luogo, allora? Anzitutto, fuori da quella forbice pubblico-privato che, dall’economia alla ricerca, dalla sanità all’università, passando per l’eufemismo della cultura – che in Italia è anzitutto patrimonio, bene conservativo, poi intrattenimento e spettacolo – è l’attuale rovello di un dibattito costituito da due soli, pletorici protagonisti: lo Stato e il Mercato. Il teatro indipendente, nella sua strutturale ambiguità, ha il torto implicito di resuscitare quel terzo escluso, la società, di cui Zygmunt Bauman ha cantato il commovente epitaffio nel suo La società sotto assedio. Persino la sua forma arretrata – il suo corpo martoriato e irriducibile, l’essere e non essere della sua espressività – lo risospinge di continuo verso una socialità perduta e tuttavia irrinunciabile, per la sola buona ragione che non può essere scambiata con alcun sostituto virtuale (con nessuna simulazione, con nessun corpo di sintesi). Più che una “voglia” smaniosa, consumistica – cioè insieme massificata e privatistica – il teatro, come ha scritto di recente Andrea Felici, esprime un bisogno: un bisogno radicale che è nel contempo quello di un luogo e quello di un evento - il luogo e l’evento di me in un altro. E’ di questo bisogno (di alterità, di senso, di società) che difficilmente si parla negli incontri istituzionali. C’è forse l’imbarazzo di come collocarlo sulla scala dei valori correnti: tra il rarefatto feticismo della cultura (che non essendo più una bildung, è diventata solo un bene più elevato) e l’intrattenimento moltitudinario, tra i generi della comunicazione di massa e i suoi epifenomeni più o meno museali (di cui l’umiliante rampogna sul teatro inclito e solenne che andrebbe preservato come una lingua morta fa sicuramente parte). Proprio come accade con la società, insomma, si fatica a credere che il teatro sia vivo. E che, di questa vita, il cosiddetto teatro indipendente sia oggi la parte più viva, perché più refrattaria a diluire la propria differenza artistica in un mercato di trasvalutazioni dove ogni gesto, per esistere, è chiamato a misurarsi con un indice di gradimento mediatico – molto, tanto, poco, per nulla “popolare” (o su altri versanti dello stesso mainstream, molto tanto poco per nulla elitario). L’indipendenza, dice Gian Maria Tosatti nell’editoriale di questo numero de La differenza, è uno stato di necessità. Non uno stemma antagonista, quindi, e nemmeno un rifiuto romantico dello scambio (con il potere, con il mercato): il convegno del 13 dicembre lo ha sobriamente, quanto efficacemente, dimostrato. Ma è anche la consapevolezza che, se l’arte è a sua volta un commercio, c’è nel suo gesto qualcosa che non può essere scambiato. |