Una immagine di Questo buio feroce
Una immagine di Questo buio feroce
Pippo Delbono e Bobò in Gido
Pippo Delbono e Bobò in Gido

Anno 1 Numero 02 Del 14 - 1 - 2008
La canzone degli uomini inesistenti
Funambolismo sulla linea rossa che lega le opere di Pippo Delbono

Gian Maria Tosatti
 
Sfondo bianco a perdita d’occhio. Luci accese in sala. Ore 22.15. «I’m so glad to introduce you to a special moment, for me, for us. Thank you very much. Thank you. Thank you». Siamo circa verso la metà di Questo buio feroce, l’ultimo spettacolo di Pippo Delbono. Un uomo magro, magrissimo, il signor Nelson, giacomettiano e al tempo stesso ridicolo, ringrazia il pubblico per essere intervenuto sulle note introduttive di My way, e poi attacca esponendo la sua inaccettabile semi-nudità come un’arma acuminata puntata contro il pubblico. Ma chi sta minacciando?
E’ questo che per lungo tempo mi sono domandato dopo aver assistito al debutto romano di un anno fa a Roma e poi dopo esserci tornato ancora, fino adesso, mentre lo spettacolo apre la stagione 2008 del parigino Théare du Rond-Point. A distanza di tempo ho capito una cosa. Ho riflettuto su quale fosse il senso della linea di demarcazione segnata dal limite del palcoscenico in quel momento e in tutti quelli che compongono il percorso teatrale di Pippo Delbono.

Quella linea, talvolta di legno, di sabbia o di velluto rosso, è la medesima linea che separa i curdi dalla Turchia e dall’Iraq, che separa i Palestinesi dalla Palestina, che separa i rifugiati di tutto il mondo dal resto del pianeta. Per arrivarci ho seguito una riflessione di Hannah Arendt che sulla scia delle considerazioni di Edward Burke sull’inapplicabilità della Déclaration des droits de l'homme et du citoyen quando essi non sono al contempo i diritti di un uomo e di un cittadino (francese, inglese, americano…) chiosava dicendo: «Il mondo non ha visto nulla di sacro nell’astratta nudità della condizione di umano». Indifesi, fuori luogo e sempre, costantemente, in fase di smaltimento. Ecco la condizione dei rifiuti umani, ossia coloro che non rientrano nelle categorie su cui si regge il sistema sociale. Non sono più identificabili per aree geografiche nel mondo globalizzato, li distingue solo la loro condizione di profughi, quella condizione di sospensione apolide di cui le figure autobiografiche protagoniste del film Grido, presentato l’anno scorso alla Festa del Cinema di Roma (e ora in dvd), si fanno manifesti viventi. Pippo e Bobò, sullo stesso piano, con le stesse mutande e gli stessi calzini sui due letti gemelli di una stanza d’albergo spersa chissà dove. Pippo e Bobò, cui è negato il ritorno dopo dieci anni nel manicomio di Aversa ormai abbandonato, distrutto, sparito dalla mappa. Rifiuto è colui che è senza una patria e dunque senza una legge che lo difenda. I malati di Questo buio feroce, non sono cittadini di nessuno stato, sono in viaggio, sono in partenza dalla vita senza documenti. I deliranti combattenti di Guerra, i baraccati di Urlo, i Barboni. Dove sono costoro, se non oltre quella linea invisibile che delimita i molteplici campi profughi che circondano singoli individui in movimento per le città, per gli Stati?
Ecco allora chi stava minacciando il signor Nelson. I cittadini, i benedetti dal sistema. Li minacciava con l’inaccettabile sua esistenza di errore, di system error, di anomalia da sopprimere e che pure, per una licenza poetica di Delbono, si trovava adesso su un palcoscenico, ossia in una posizione elevata, una posizione di vantaggio da cui sparare.



Questo buio feroce di Pippo Delbono sarà al Théare du Rond-Point di Parigi fino al 29 gennaio.