Las Meninas di Velasquez
Las Meninas di Velasquez
La copertina del saggio di Zizek
La copertina del saggio di Zizek

Anno 1 Numero 02 Del 14 - 1 - 2008
Il bello e l'abietto
Una immagine e tre libri dove è questione del rifiuto dell'arte

Attilio Scarpellini
 

In mezzo a tutti questi elementi che sono destinati
a offrire rappresentazioni, ma che le rifiutano, le
nascondono, le evitano grazie alla loro posizione
o alla loro distanza, questo è l’unico che funziona
in piena onestà offrendo alla vista ciò che deve
mostrare (…) Ma non è un quadro: è uno specchio.

Michel Foucault, Le parole e le cose
1. Il termine abietto può prendere molti significati. Secondo il regista Jacques Rivette, ad esempio, la lunga carrellata finale di Kapò di Gillo Pontecorvo, dove Emmanuelle Riva moriva abbarbicata al reticolato di un campo di concentramento, era “abietta” perché enfatizzaa qualcosa che non può essere enfatizzato, con il risultato di produrre un momento di cinema moralmente abietto perché esteticamente sbagliato. Nel giudizio di Rivette – che ha inseguito Pontecorvo fino a tempi recentissimi (fino a quando Tullio Kezich non ha deciso di rovesciarlo sugli stessi che l’avevano pronunciato) – la ricerca del sublime sconfinava insensibilmente nell’abietto. Giusto o sbagliato che fosse, quel giudizio ha avuto il merito di intuire una delle future frontiere di quel processo noto come estetizzazione del mondo e della vita. Quel che neanche il regista francese poteva prevedere, però, è che proprio in un mondo “straordinariamente bello” (nonché straordinariamente abietto) come lo definisce un ironico ma sedotto Yves Michaud nel suo L’arte allo stato gassoso, i rapporti tra il sublime e l’abietto avrebbero finito per rovesciarsi, con effetti sociali imprevedibili. Chiunque si sia soffermato anche pochi secondi sull’”inguardabile” manifesto di Oliviero Toscani che esponeva il corpo nudo di una giovane modella anoressica si è fatto un’idea tanto icastica quanto precisa di questo ribaltamento. Precisa perché in essa l’efficacia del significato – legato a una campagna di utilità sociale – per una volta era indistinguibile dall’impatto percettivo dell’immagine che lo veicolava: il brivido di orrore che accompagnava la rivelazione del corpo consunto di Isabelle Caro innescava il corto-circuito tra la bellezza più conclamata e l’abiezione più rimossa. Rivelazione improvvisa, ma non immediata: l’intelligenza “mediatica” del gesto di Toscani consisteva proprio nel confondersi a tutta la cartellonistica circostante, nel nascondere il corpo che nessuno può (più) desiderare tra quelli che tutti desiderano. In nudo, diceva Robert Bresson, ciò che non è bello è osceno. Toscani esibiva l’inesibibile: la bellezza femminile più paradigmatica – quella della mannequin – divenuta rifiuto umano che il consumo di massa (di bellezza reificata oltre che di oggetti) espelle ai livelli più bassi e più oscuri del suo ciclo, quelli velati e reticenti del sistema sanitario. Un’anti-immagine bloccava e modificava brutalmente il senso del flusso immaginifico in cui era inserita, come il famoso specchio sistemato tra i quadri di Las Meninas di Velazquez che tanto impressionava Michel Foucault. E così facendo denunciava la propria ostilità non solo al sistema della moda ma alla stessa comunicazione pubblicitaria (rendendo meno inane l’ossimoro di una “pubblicità sociale” e) chiarendo con una folgorazione che il destino dei corpi mercificati dall’estetica non è l’Immortalità dello sguardo olimpico, ma l’impudicizia degli ospedali e delle discariche da cui il più delle volte il genere umano che non è costretto a frequentarli distoglie fastidiosamente gli occhi. Al primo albeggiare dello scandalo, il più era fatto, “con pietà ed orrore” come direbbe Aristotele: socchiudendo le palpebre dei più sensibili e forse persuadendo i più teneri che deve pur esistere un modo per restare ancora accanto a quel corpo…


2. Nell’immagine di Toscani la Realtà esplode sulla faccia dell’Immaginario, perché un corpo drammaticamente fuori-luogo ne delocalizza altri che lo sono senza dubbio troppo, sempre più leggeri e a proprio agio sulla loro passerella (o al giusto posto nel continuum delle merci): questo rifiuto di immagine (divenuto immediatamente un’immagine rifiutata e insopportabile), infatti, non afferma il contrario del corpo estetizzato – opponendogliene uno derelitto come avviene in molte campagne di solidarietà con un Terzo Mondo dove la fame è la regola e non l’eccezione - ma ne mostra piuttosto l’ eccesso, proprio come il rifiuto del corpo biologico coincide con la ricerca dell’ impossibile perfezione di un corpo senza libido (e si badi bene, nel caso della moda, di una perfezione squisitamente performativa) Il niente sotto il vestito non è una metafora: è quel poco di sostanza vitale e di corpo vissuto che un’estetica della sparizione non ha ancora sgretolato. E in questo senso, è lo scarto e insieme il risultato (ogni rifiuto è anche un risultato) di un’idea sociale del corpo… Se l’arte è quel gesto inesorabilmente “riflessivo” di cui parla Cornelius Castoriadis in un’antologia di scritti da poco pubblicata con il titolo Finestra sul Caos, il tragico ritratto del corpo di Isabelle Caro risponde al suo compito nei termini (non consolatori e saggiamente rivoluzionari) in cui, ancora nel 1992, lo definiva il filosofo di Devant la guerre. Si tratta, dice Castoriadis, di rivelare “un Altrove che destituisce di ogni senso il Luogo abituale, creando uno squarcio attraverso il quale intravediamo l’Abisso, il Senza-Fondo sul quale viviamo costantemente e che costantemente cerchiamo di dimenticare”. In un mondo in cui l’immaginario diviene Luogo abituale – la nostra “scena primaria” diceva Baudrillard – è la realtà a configurarsi come un altrove; in un mondo derealizzato e imponderabile, il “reale” è un resto, un frammento, un avanzo che sempre più spesso l’arte si rassegna a mettere in scena in quanto tale nel disperato tentativo di rompere il contesto di una bellezza uniforme e democratica, istituita come un nuovo diritto umano per tutti e per nessuno. Il bello e l’abietto si cambiano di posto, svelando, scrive Slavoy Zizek nel suo La fragilità dell’assoluto, che la “verità nascosta” del movimento artistico contemporaneo è una “paradossale identità degli opposti”. “Gli oggetti dell’arte moderna non sono sempre più oggetti-escrementi, spazzatura (spesso proprio nel senso piuttosto letterale del termine: feci, corpi in decomposizione) messi in mostra nel – fatti per occupare riempire il – luogo sacro della Cosa?” Ma – appunto - la forza specifica della campagna di Toscani è dipesa proprio dalla sua estraneità al sistema dell’arte. Incorniciata e “contestualizzata” nello spazio di una galleria – segnalata e individuata come arte e non moltiplicata come comunicazione, immagine tra le immagini che tappezzano il mondo in attesa di sbiadire – essa non avrebbe interrotto alcun flusso né spalancato alcun abisso. Proprio la residua sacralità del luogo, la stessa retorica del suo vuoto, disposto ad accogliere ogni immondizia nell’enfasi di un evento (dove mai niente avviene) - ne avrebbe sedato non tanto lo scandalo – che è un genere accademico – quanto la potenza catartica, disperdendola nella marea detritica delle citazioni. La dove il rifiuto, come oggetto e come atto, è all’ordine del giorno di una progressiva sostituzione della Cosa, a vincere è soltanto lo scaltro rilancio dell’aura dell’arte nelle forme del suo lutto: l’eccesso trasgressivo, come scrive Zizek, “perde il suo valore scioccante e viene completamente integrato nel mercato artistico ufficiale”.


In libreria

Yves Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica – Edizioni Idea, Roma 2007, 148 pp. 18 Euro

Cornelius Castoriadis, Finestra sul Caos. Scritti su arte e società – Elèuthera, Milano, 2007, 127 pp., 12 Euro

Slavoy Zizek, La fragilità dell’assoluto (ovvero perché vale la pena combattere per le nostre radici cristiane), Transeuropa, Massa 2007, 164 pp., Euro 15