Anno 1 Numero 03 Del 21 - 1 - 2008
L'eccezione è la regola
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Romanzi che diventano teatro, teatro che diventa cinema, cinema che diventa elaborazione grafica o pittorica. L’arte è transgender per definizione.
Già nel teatro attico confluiscono la danza, il canto, la parola, l’immagine, ma in una combinazione di sintesi per nulla assimilabile ad un processo additivo. E allo stesso modo, alla fine dell’ottocento, alcune traiettorie teatrali confluiscono nel cinema, senza per questo farsi ponte in un rapporto di continuità fra le arti, lasciando che lo sviluppo di questi due mezzi procedesse parallelo similmente a due cavi elettrici esposti a reciproci passaggi di energia per induzione.
In questi anni, o addirittura in questi mesi, in Italia, la performance artistica e quella teatrale iniziano, dopo decenni di percorso parallelo a fondersi stabilendo un avvicinamento a posteriori la cui interpretazione teorica sembra di portata assai più interessante rispetto alle riflessioni sulla contaminazione iniziale.

Parallelo sembra quindi il procedere delle arti e dei linguaggi, talvolta rigidamente, talvolta in maniera più morbida, ma attraversato sempre da tagli trasversali. Esperimenti, ipotesi, che si mettono appunto di traverso, e che talvolta lasciano il tempo che trovano, mentre altre volte creano innesti capaci di generare forme nuove, liminali, che sussistono in forza anche ad un solo atto o si codificano fino a divenire esse stesse linguaggio.
Ne è dimostrazione appunto la storia di Luca Ronconi, a Milano in questi giorni con Farneheit 451, tratto dal romanzo di di Ray Bradbury. Il suo è l’ennesimo passo lungo una poetica ultradecennale che, esplosa con l’Orlando Furioso negli anni Settanta, ha costruito sulla dinamica di rapporto del teatro con la narrativa una vera e propria grammatica ulteriore, ibrida, che ebbe qualche anno fa il suo punto estremo e al contempo la sua dimostrazione con Infinities, messo in scena alla Bovisa. Il testo di partenza allora era addirittura un saggio scientifico di John David Barrow, ordinario di matematica a Cambridge e autore di testi divulgativi. Il risultato fu qualcosa che strutturalmente si avvicinava ad un paradosso e che a tutt’oggi resta più una traccia da esplorare che un risultato.

E paradossale è allo stesso modo è l’esperienza di Werner Herzog, in questi giorni protagonista di due grandi eventi a Torino: l’omaggio di una settimana al Museo del Cinema e la mostra alla Fondazione Sandretto. Il suo 1978 fu l’anno di due film girati quasi simultaneamente Woyzeck e Nosferatu, opere con cui il regista bavarese si poneva il problema del confronto con due pietre miliari della cultura tedesca moderna. Ma come sceglieva di farlo? Annullando e radendo al suolo il cinema stesso e la sua capacità di essere tramite estetico. In Woyzeck seguiva in modo ortodosso la didascalia e il testo buchneriano, finanche nei tempi, che non si concedono mai ad una panoramica o ad una sequenza che non sia iscritta nella battuta teatrale e nel suo tempo. In Nosferatu l’operazione diventava ancora più sofisticata perché l’ambizione era quella di trasporre il cinema nel cinema, eliminando ancora una volta il peso del tramite. Qui Herzog riproduce dunque con maniacale “osservanza” il capolavoro di Murnau, replicando in molteplici occasioni le esatte inquadrature del film del ’22 e sviluppando solo qua e là alcuni dettagli periferici.

Più delle trasformazioni allora è interessante chi si ponte il problema della trasversalità del linguaggio, innescando a volte percorsi tortuosi e rischiosi. Tra questi è certamente Eimuntas Nekrosius, al debutto in questi giorni con la sua Anna Karenina. Il regista lituano rivelatosi quale interprete eccellente di drammi cechoviani e shakespeareani, negli ultimi anni ha sacrificato buona parte del suo successo alla volontà di sperimentare la possibilità di un teatro d’immagine nato da testi poetici come le Stagioni di Donelaitis o il Cantico dei Cantici.

Ultimo aspetto da tenere in conto è la trasversalità dei luoghi. Un esempio può essere quello di Fanny & Alexander che nell’ultimo spettacolo, Him, mettono in ginocchio sulla scena un unico attore, nei panni di un dittatore monomaniacale, che tenta il doppiaggio dell’intera pellicola del Mago di Oz, proiettata alle sue spalle. Si verifica così uno sfondamento delle identità di teatro e cinema e al contempo lo spirito del lavoro consta di un impianto concettuale che non sembra appartenere tradizionalmente a nessuno di questi due linguaggi quanto piuttosto a quello dell’arte contemporanea. Un’opera da galleria dunque, che tuttavia occupa disinvoltamente il palcoscenico dell’Ambra Jovinelli di Roma (fino al 15 febbraio).

Non serve allora uno sguardo particolarmente lungo, basta una sola settimana, per capire che la trasversalità non è l’eccezione, ma la regola e che la cronaca delle trasformazioni non è che la storia dell’arte.