Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 03 Del 21 - 1 - 2008 |
In punta di piedi |
Storia recente e meno recente delle fascinazioni letterarie nella danza |
Mariateresa Surianello |
Danza contemporanea, una definizione di convenienza comprendente decine di produzioni, differenti per formati e linguaggi, ma unite dalla medesima sorte: l’assenza. Essere assenti - o costrette a improvvise epifanie - è la condizione comune alle opere di danza contemporanea, che ha impedito il contatto con nuovi spettatori, determinando la perdita di possibilità costanti di verifica della creazione artistica. Non si può certo affermare che il balletto classico e neoclassico abbia vita migliore, comunque, qualche spazio di apparizione è previsto anche a livello legislativo. Così, in attesa del nuovo corso istituzionale avviato in questo 2008, capita raramente d’incontrare sulla scena italiana elaborazioni coreografiche coraggiose nella loro tensione trasferente la pagina scritta nel corpo del danzatore. In questa direzione si sviluppa la recente e suggestiva partitura firmata da Virgilio Sieni, Signorine (è passata il 19 gennaio da San Gimignano, al Teatro dei Leggieri, e si era vista in giugno nella rassegna romana Garofano Verde), dove il lento movimento quasi quotidiano delle due interpreti, il rannicchiarsi, nascondersi, appassionarsi e forse perdersi si espande in una sospensione del tempo. Ispirate all’opera di Samuel Beckett e, in particolare, a tre diversi materiali, il suo atto teatrale di estrema sintesi Respiro, la sceneggiatura del cortometraggio Film in cui l’occhio della macchina da presa, l’immagine in soggettiva, alla fine coincide col protagonista Buster Keaton, e al racconto Mal visto mal detto, queste Signorine sembrano svuotarsi di contenuti per rilanciare la pessimistica visione beckettina della condizione umana, sempre più attuale, in questa società reificata, tra macerie belliche esportate e montagne di rifiuti. E in maglie letterarie si è fatta prendere Caterina Inesi per Tutto di prima, con la sua nuova etichetta Immobile Paziente (era Travirovesce). Da Tutti i figli di dio danzano, ultima raccolta di racconti del giapponese Murakami Haruki (tradotti da Giorgio Amitrano per Einaudi, 2005), la coreografa ha costruito un personaggio ordinario e quotidiano, cadente, strisciante e sorpreso, talvolta immobilizzato in piccoli gesti, che Francesco Villano rilascia con misura, da attore anche recitante, messo alla prova con una sequenza stretta di movimenti (sarà in scena al Teatro San Martino di Bologna, il 25 e il 26 gennaio). Ma il rapporto fra parola e gesto danzato nella storia ha uno sviluppo controverso che forse è il caso di ripercorrere brevemente. Sebbene nel Novecento col nucleo dada di Zurigo si inaugura una corrente astratta che approda a fulgidi esiti anche nel secondo cinquantennio del secolo, è vero che la danza conserva nel suo corredo cromosomico una propensione ad attingere nell’immenso paniere letterario e a tentare con i linguaggi che le sono propri la via della narrazione. Esempi, negli ultimi anni, sono stati forniti da Michele Abbondanza e Antonella Bertoni che per riattraversare il tema del sacrificio d’amore allestiscono Alcesti (da Euripide e Rilke), Medea (da Apollonio ed Euripide) e poi Polis, un ciclo tragico che, dal microcosmo familiare, spinge lo sguardo verso la comunità - “Ho male all’altro” è l’eloquente sottotitolo del trittico. Dove il movimento dei corpi produce scatti d’apertura e di repentina contrazione, nella ricerca della rappresentazione del mito. E, tornando alla storia, del resto, quel Ballet comique de la Reyne (Parigi, 1581), prototipo del “ballet de cour” tanto in voga il secolo successivo con Re Sole (il soprannome pare derivi proprio da un “cameo” del sovrano sulla scena), andava a procurarsi il plot dalla Circe omerica. Procedendo per voli pindarici nel secolo dei Lumi, con gli enciclopedisti è proprio Rousseau a stigmatizzare il balletto fine a se stesso e schiavo del formalismo, prescrivendo quello che Noverre teorizzerà nelle Lettres sur la danse et sur les ballets. Ma sarà Gaspare Angiolini, l’anno successivo (1761), a firmare le coreografie “riformate” di Le festin de pierre ou Don Juan, il primo “balletto d’azione”, in cui però l’ispirazione è tutta teatrale, compresa l’omonima pièce di Molière. Da un materiale squisitamente narrativo, il racconto fantastico di Charles Nodier Trilby il folletto di Argail, nasce il balletto romantico La Sylphide che Filippo Taglioni crea per la figlia Maria, la quale per la prima volta si elevava sulle punte, raggiungendo l’eterea bellezza della ballerina in tutù e aprendo, così, la grande stagione del “ballet blanc”. Nove anni dopo, nel 1841, Carlotta Grisi bissa con Giselle il successo continentale di Maria Taglioni e ancora l’ispirazione all’autore del libretto, Théophile Gautier, arriva dalle pagine di Heinrich Heine, con le sue fantastiche e crudeli Villi che hanno suggestionato generazioni di interpreti e di coreografi, a partire dai due padri originari, Jean Coralli e Jules Perrot. Anche i capolavori di Ciaikovski Il lago dei cigni, La bella addormentata nel bosco e Lo schiaccianoci sono riletture di fiabe popolari (a parte l’antica e poco nota del tedesco Musäus, Il velo rubato, le altre due sono, rispettivamente, di Perrault e Hoffmann), strumentali al gioco coreografico e alla perfezione tecnica dei grandi solisti russi e dei corpi di ballo del Marinski di Pietroburgo e del Bolscioi di Mosca. E giusto per chiudere questo rapidissimo excursus e tornare ai primi del Novecento, i rivoluzionari Ballets Russes di Diaghilev trovano continui pretesti letterari per dare sfogo all’inesauribile ardore creativo. Valga il solo esempio de L’aprés midi d’un faune, coreografato da Nijinski su musiche di Debussy, che mutua il titolo dall’omonimo poemetto di Stéphane Mallarmé. Siamo così tornati in quel circolo svizzero del Cabaret Voltaire che riuniva molte delle menti libere di un’Europa sconvolta dalla Grande Guerra - da Hermann Hesse a Marcel Duchamp, da James Joyce a Tristan Tzara, da Man Ray a Hugo Ball –, e dove il germe dadaista e antibellico rompeva le convenzioni e distruggeva la tradizione, liberando la danza da ogni codificazione accademica. Nel decennio precedente, dagli Stai Uniti, era comparsa sulla scena europea Isadora Duncan e ora Mary Wigman aveva assimilato la lezione di Laban portando il movimento di puro espressionismo astratto. Un filo rosso che in Germania, dopo l’interruzione nazista, arriva fino al tanztheater di Pina Baush. Anche la coreografa di Wuppertal, però, non usa spesso ispirazioni letterarie. Una tendenza che a partire dalle avanguardie storiche si riproduce costantemente fino a oggi, quando, nell’arte del movimento, sembrano più frequenti le suggestioni pittoriche o fotografiche o quelle della insopportabile realtà in cui viviamo e che non riusciamo a cambiare. Viene in mente Il migliore dei mondi possibili di Roberto Castello o Antonio Gades, spagnolo di nascita ma cubano d’adozione, che poteva piegare la sua fortissima tecnica alla novella di Prosper Merimée, Carmen, rendendo il flamenco una meravigliosa danza da palcoscenico, ma che con Fuenteovejuna, la sua ultima opera, andava oltre la rilettura straniante e ritmata a colpi di tacco di Lope de Vega, creando un affresco maestoso in omaggio alla Rivoluzione. |