Una scena dallo Studio per Woyzeck
Una scena dallo Studio per Woyzeck
Claudio Morganti
Claudio Morganti

Quel che urla il testo. Tradurre, riscrivere, trasformare
Frammenti di una conversazione con Claudio Morganti

Attilio Scarpellini
 
E’ timido, quasi fino a essere schivo. Non ama stare in mezzo alla gente, ma ama gli attori – mentre “molti teatranti li detestano” – e stare insieme a loro: sul palco come al bar o a cena. Non gli piace parlare in pubblico, ma quando si rivolge al pubblico, nei panni dell’Imbonitore del suo Woyzeck studio che si è appena concluso al Teatro della Tosse di Genova, non gli risparmia nulla: quella risata straniata e spiazzante che è ormai la sua stimmate, le digressioni di una clownerie sgangherata (“c’è sempre un cretino in sala che dice…non zi può fare Woizzek zenza Glaus Kinski”), la sorpresa e la delusione – perché là dove si crede di aspettarlo, lui arretra, scarta, bruscamente si assottiglia. Mi piacerebbe dire che ho passato tre giorni con Claudio Morganti. La verità è che li ho trascorsi a cercare di scalfire l’invisibile ma concreta cortina di discrezione, istoriata da una cortesia cinese, implacabilmente ferma nei suoi dinieghi, con cui avvolge il suo lavoro, i suoi attori e i suoi laboratori, tenendo la curiosità degli altri (e la curiosità “professionale” prima di ogni altra) fuori dalla porta. Perché il teatro è un altro spazio dove si è e non si è se stessi, e finché si lavora per entrarvi – per varcare la soglia tra il dentro e il fuori di un’immagine – è uno spazio invisibile al mondo. Il teatro è tra chi lo fa, solo lo spettacolo è per tutti. E’ quel che Mejerchol’d intendeva con l’ espressione “laboratorio”: che i risultati di quel lavorio di bottega fossero sottratti allo sguardo di chiunque. “Forse è per questo – dice Morganti – che lo hanno ucciso” (e se non è vera è ben trovata: il potere staliniano non poteva tollerare niente che si smarcasse dal suo controllo, nessuna opacità che sfuggisse all’ invasiva trasparenza del suo regime). Non so nemmeno se il termine “trasformazione” gli dica veramente qualcosa, a Claudio Morganti: come il Grotowski che fa laicamente leggere ai suoi allievi, potrebbe sempre rispondermi che non vuole scoprire qualcosa di nuovo, “ma qualcosa di dimenticato” (di così antico dall’esserci prima di ogni distinzione, di ogni polemica, tra i generi artistici. Ah, il segreto faustiano dell’azione che non riusciremo mai a penetrare, dal momento che – gli scappa detto – l’idea della scena esiste “sia che noi esistiamo, sia che non esistiamo”…). Eppure, una volta in scena, davanti all’epifania ritmica del suo studio sul Woyzeck di Büchner (che è un ritorno sulle origini del suo teatro, ai tempi del sodalizio con Santagata e di Büchner mon amour) la prima cosa che viene in mente è un’icastica affermazione di Gerardo Guccini: a teatro niente è più vero della realtà trasformata. Ecco cosa resta, cosa si vede delle camminate al buio e degli esercizi di solfeggio ritmico. In questo spettacolo percussivo tutto è dettato – scandito, rullato, precipitato - dalla musica dei tamburi che segnano in penombra l’orizzonte della scena. E tuttavia “il ritmo della battuta non è mai lo stesso della musica”. In questo spettacolo montato, sulla scia di Schnitzler e di Ophuls, come un balletto di incontri e di addii, alternando scritture e riscritture di una drammaturgia infedele quasi a ogni riga e fedelissima in ogni palpito, l’evidenza meccanica del cinema sembra tornare alla portata dello sguardo del teatro - nel tempo dato e tolto da ogni quadro, quando la luce si trattiene ancora per un attimo, oppure se ne va prima del tempo, che è sempre quello di una corsa sfiatata verso il precipizio. Fa musica, il Woyzeck corale del capo-comico Morganti, e fa cinema nella velocità di un découpage frammentato, espressionista. Ma con tutti i mezzi del teatro…

E il testo? Questo Woyzeck è insieme trasfigurato e riconoscibilissimo, come se Büchner fosse diventato un imprinting. Con gli allievi del Teatro della Tosse hai riproposto lo stesso lavoro di paziente riscrittura che hai applicato a Shakespeare negli anni di studio del Riccardo III…

Con la considerevole differenza che il Woyzeck volge decisamente al tragico e la tragedia è più vicina alla farsa che alla commedia o al dramma. Durante le prove con i ragazzi lo ho dovuto tenere costantemente presente: nessun registro è meno familiare, più alieno dal naturale e dal naturalistico di quello tragico. Per il resto, ogni traduzione è, come si dice spesso, un tradimento. Non è un gioco di parole: se si vuole fare Büchner come è scritto, allora, l’unica possibilità è di utilizzare quel dialetto austriaco in cui scriveva lui. Dal momento che non si può, bisogna mobilitare la pluralità delle traduzioni, raccogliere tutte le traduzioni possibili e immaginabili – tutti questi grandi tradimenti, talvolta incredibilmente arbitrari o clamorosamente errati - per comporne una completamente nuova che è la più rischiosa di tutte: la tua. Visto che sei tu che devi prenderti la responsabilità di quello che in scena dirai e farai, è ovvio che tu abbia, non solo la possibilità, ma il dovere di riscrivere ancora. La riscrittura è un esercizio fondamentale perché riguarda quella parte del nostro lavoro che passa sotto il nome altisonante di “analisi del testo” ma che, il più delle volte, finisce con l’essere niente più di un esercizio di psicologia da pianerottolo applicata ai presunti personaggi.

E invece…

E invece bisogna rispondere a domande più essenziali : che cosa l’autore voleva scrivere e non è riuscito a scrivere? Cosa c’è tra una riga e l’altra, cosa c’è di urgente – cosa urla questo testo al di là delle parole che utilizza? La riscrittura obbliga a leggere il testo in maniera molto approfondita, ma dal punto di vista delle dinamiche e delle differenze di forza tra i personaggi. Quel che bisogna leggere in maniera profonda sono i rapporti tra i personaggi, per poi provare a riscrivere la stessa scena con altre parole. Mejerchol’d diceva che, per capire se un testo è portatore di una drammaturgia forte, basta togliere le parole e trasformarlo in una pantomima. Se rende senza parole vuol dire che, sicuramente, anche le parole di quel testo sono buone…

Come nell’Amara sorte del servo Gigi, il lavoro che hai dedicato all’Ultimo nastro di Krapp, dove hai cambiato le parole di Beckett…

Dalla prima all’ultima, ed erano le parole di uno scrittore che dal rapporto con la lingua era ossessionato. Che però diceva che le parole sono “forate” come un buco attraverso il quale si guarda al di là,… in noi. Cambiando tutte le parole del testo, ma lasciando intatta la struttura drammaturgica, il teatro può accadere ugualmente. E questo significa che quando diciamo testo intendiamo una cosa ben precisa, quando parliamo di drammaturgia ne vogliamo dire un’altra, e un’altra ancora quando parliamo di teatro. Il testo è l’ultima ruota del carro, e lo è per l’autore stesso che non è mai soddisfatto di quel che fa. Che cosa vuol dire Büchner, allora? Non lo sappiamo, possiamo solo cercare di intuirlo. E l’atto della riscrittura ci può aiutare ad approfondire questa intuizione.

Nel tuo lavoro la riscrittura non è un compito delegato alla regia, passa necessariamente per l’attore che così diventa autore. Siamo agli antipodi della regia critica che riordina i materiali del testo secondo i suoi schemi e chiede agli attori di interpretarli. Ai ragazzi del laboratorio hai proposto un percorso che va nella direzione opposta. In direzione di uno svuotamento e di una trasformazione personale del testo. O come diresti tu, di un’assunzione di responsabilità…

A me sembra ovvio che questo percorso sia il processo più naturale per accedere all’atto del teatro. In tutte le scuole, grandi o piccole, di provincia o di città, si gira ancora attorno alla questione di fornire degli strumenti e insegnare delle tecniche. Bisognerebbe essere più umili e più onesti: chiedersi esplicitamente – perché sottobanco poi tutti sono d’accordo – perché, allora, si finisca con l’operare diversamente appena si sale sul palcoscenico. Dichiarare una volta per tutte che la tecnica è un fatto di esperienza individuale. Nel tempo ognuno avrà la propria tecnica. Non siamo pittori, non abbiamo strumenti. Continuare a ripetere che il corpo è uno strumento non ci porta molto lontano. Il corpo, certo…E la mente? Chi è che si incarica di formarla? No, il teatro è un’esperienza. Ed esperienza vuol dire ore di volo, tempo della tua vita. Si continua a insegnare che il teatro è un lavoro che si svolge in un certo numero di ore al giorno e che una volta saliti in scena si è tenuti a dare una prestazione efficace, professionale, cioè il più possibile rispondente ai voleri della tua committenza, a cominciare, ovviamente, dal tuo primo committente che è il regista. E’un ragionamento micragnoso. La verità è che quelle due ore sono due ore della tua vita. Come le hai spese, allora? Come ti sei comportato? Bene? Male? Puoi considerarle due ore vissute, o semplicemente lavorate… Non riesco a capire come in scena ci si possa illudere di poter fare a meno di se stessi. Qualcuno risponde: io faccio il personaggio… Ma in scena io non vedo un personaggio, vedo un essere umano. Non ci si può nascondere.

Perché il teatro è un “luogo usurpato”?

Perché il mestiere dell’attore è un furto, un arte corsara che si basa sulla sottrazione di uno spazio che un tempo apparteneva ad altri – ai musicisti, agli acrobati – in virtù di una loro competenza, di una loro abilità. L’attore in realtà non ha alcuna specificità, non sa fare nulla: parla e agisce come tutti gli altri. L’unica via che può percorrere per acquisire dignità è prendersi la responsabilità del furto che ogni sera compie andando in scena. Il teatro è un attimo provocato da un’esperienza che l’attore ricrea e vive in scena. Un’esperienza che lo proietta fuori dal suo corpo e che riesce a dargli il totale controllo di sé, del pubblico, di tutto lo spazio che gli sta attorno. Talvolta, ci sono spettacoli in cui il teatro accade. Ma ce ne sono altri costruiti perché il teatro non debba mai avvenire.


* Lo Studio per Woyzeck di e con Claudio Morganti è il primo appuntamento del progetto triennale “Facciamo Insieme Teatro” con cui Massimiliano Civica, condirettore artistico del Teatro della Tosse di Genova, intende rilanciare il capocomicato come base di una pedagogia artigianale del teatro. I sei attori selezionati per entrare a far parte della compagnia stabile del teatro genovese lavoreranno ogni anno con un grande attore-capocomico che li dirigerà in uno spettacolo-studio e reciterà in scena con loro. Lo Studio per Woyzeck di Claudio Morganti è stato in scena alla sala Dino Campana dal 15 al 20 gennaio scorsi con Claudio Morganti, Silvia Bottini, Massimiliano Ferrari, Luca Ferri, Lupo Misrachi Sara Novellini, Mario Pietramala Rita Frongia, Luca D’Addino, Deborah Zoratti e Gianluca Calducci nel ruolo di Woyzeck. Drammaturgia di Rita Frongia. Le scene sono state curate dall’Accademia Ligustica di Belle Arti, i costumi da Bruno Cereseto e Anna Romano.

In libreria: Donatella Orecchia-Mariapaola Pierini, Claudio Morganti, Editrice Zona