Anno 1 Numero 04 Del 26 - 1 - 2008
Presente storico
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
«Lavoriamo sotto terra e sulla terra. Sotto il tetto e alla pioggia. Col badile, il vagone merci, il piccone, la leva. Portiamo sacchi di cemento. Deponiamo mattoni, rotaie, recingiamo il terreno, calpestiamo la terra… Mettiamo le fondamenta di una qualche nuova civiltà. Solo adesso ho conosciuto il prezzo dell’antichità (…) Cosa verrà a sapere di noi il mondo, se vinceranno? Nasceranno enormi costruzioni, autostrade, fabbriche, monumenti alti come il cielo. Sotto ogni mattone ci saranno le nostre braccia, sulle nostre spalle saranno portate le traversine della ferrovia e lastre di cemento. Ci assassinano le famiglie, i malati, i vecchi. Ci assassinano i figli e nessuno saprà di noi. Ci si scateneranno contro i poeti, gli avvocati, i filosofi, i preti. Creeranno il bello, il bene e la verità. Creeranno una religione»

Chi l’ha scritto questo? Proviamo a rileggerlo. E… sì. E’ lo sfogo di Mandiaye un immigrato africano, spiaggiato nei campi agricoli del meridione dopo un esodo per mare, sottoposto giorno dopo giorno alla schiavitù del caporalato. I suoi occhi vedono un intero sistema economico compiere colossali esercizi d’esistenza e fagocitare - senza distinguere – i raccolti e i raccoglitori, la merce e i suoi attributi (!), come la trebbiatrice che falcia il folto del grano e gli animali che vi stanno nascosti senza entrare nel merito. La sua famiglia è dispersa e irraggiungibile, i suoi diritti umani, appunto perché non sono anche diritti di cittadino, non sono tutelati. Non esiste vecchiaia, malattia, non esistono figli, non esistono anagrafi.
O no? No, sbaglio il testo in corsivo era scritto su un foglietto trovato nel porto di Napoli in tasca a Gao Xing, cinese, che arriva o torna morto nel ventre di una delle navi di cui ci racconta Saviano. Buttato tra decine di corpi, fante di un altro impero eppure dello stesso, un impero senza cimiteri, senza vecchi, senza bambini, un impero di lavoratori senza età.
O forse queste righe le ha scritte Giorgio, un lavoratore precario uscito per l’ennesima volta dall’agenzia del lavoro interinale. Ancora una volta la fabbrica, ancora una volta un lavoro nuovo, un nuovo pezzo da fabbricare, per quindici giorni. E’ un cittadino sì, ma i suoi diritti sono elusi, la sua dignità non è posta in discussione. La macchina continua a marciare. Fabbricando motorini, automobili, Pil. Di quindici giorni in quindici giorni. Di usura in usura. Fino allo sfibramento. Non ci sono pensioni, non c’è vecchiaia. I figli sono assassinati prima di nascere. Il destino non gli ha assegnato neppure un ruolo tragico di un certo livello, un ruolo da operaio dell’Ottocento, degli anni Venti, degli anni Settanta. Il mercato è lavoro, il mercato rende liberi. (Questa mi pare d’averla già sentita…)
Ma credo di sbagliarmi ancora. E’ il diario di uno dei morti alla Thyssen… la Thyssen. Cognome che mi ricorda una storia che in Italia si è saputa giusto un paio di mesi prima della sciagura… La storia della contessa Margit Thyssen, che una notte del 1945 servì per dessert, ad una decadente festa nazista, spranghe e fucili per poter poi scendere nel granaio ad ammazzare a mani nude i duecento ebrei che vi erano rinchiusi.
Ah ecco! Sì, ora mi ricordo. Il testo in corsivo lo ha scritto Tadeusz Borowski, poeta polacco, ariano, detenuto politico in un campo di sterminio.
Però, certo che a leggerla così…
Il fatto è che la memoria è una cosa assai diversa dalla storia. La memoria non ha recinti di tempo in cui star rinchiusa.
Nel 1951, il giorno dopo aver messo al mondo una bambina, Tadeusz Borowski si suicidava perché neppure al di fuori del reticolato di Auschwitz – divenuto museo già da quattro anni - riusciva ancora a trovare un posto in cui essere in salvo.