Il manifesto di Parole Sante
Il manifesto di Parole Sante
Il manifesto di Signorinaeffe
Il manifesto di Signorinaeffe

Anno 1 Numero 04 Del 28 - 1 - 2008
Appunti per quattro film sulla lotta di classe.
Dopo Signorinaeffe escono i documentari di Celestini e Comencini all’ombra di Loach

Mariateresa Surianello
 
Con lo spettacolo Appunti per un film sulla lotta di classe Ascanio Celestini continua a girare l’Italia, alternandolo ad altri suoi richiestissimi lavori e mutandone e ricomponendone a ogni piazza la sequenza narrativa e canora. Sono Appunti, infatti, una massa inesauribile di materiali derivanti dalla sua indagine nel luogo divenuto oggi emblema dello sfruttamento del lavoro, il call center. E questa sua discesa nelle viscere di uno dei maggiori centri di produzione del precariato italiano, Celestini la sta raccontando con ogni mezzo e linguaggio, ora anche filmico, che segna il debutto cinematografico dell’autore-attore romano.
Presentato lo scorso ottobre alla Festa del Cinema di Roma, arriva finalmente nelle sale (il 1° febbraio, prodotto e distribuito da Fandango) Parole sante, un documentario durissimo e incantevole per la sua chiarezza espositiva, che ricostruisce la vicenda dell’Atesia: 4000 lavoratori, il più grande call center d’Italia, ubicato nella periferia Est di Roma, a fianco del centro commerciale Cinecittà2 e a due passi dall’ex Istituto Luce, cuore del festival Bella Ciao, inventato da Celestini qualche anno fa, come “balsamo della memoria”. E proprio con le immagini di Bella Ciao 2007 si chiude questa storia di auto-organizzazione, raccontata attraverso un montaggio di interviste ai protagonisti del collettivo PrecariAtesia, che restituisce a ciascuno la propria identità perduta. Dopo “il tempo del lavoro” col suo recupero della memoria operaia, realizzato per tappe plurime a creare un’epica originale e potente, poi giunto a “compimento” con quel capolavoro teatrale che è Fabbrica, Ascanio approda, con Appunti e Parole sante, alla narrazione del presente. Anzi nell’epilogo del film va oltre, e si erge a sibilla – per quanti si ostinassero a non voler vedere – vaticinando l’esplosione prossima del bubbone. Un’immagine limpida e sincera, resa solo dalle parole recitate e dal primissimo piano, con quell’ultima goccia d’acqua che traboccando dal lavandino, prima, allagherà il pavimento e, poi, farà crollare un intero palazzo di 25 piani. Una metafora abbandonata subito, per accusare pacato la sinistra (da qualche ora, ex) di governo incapace di compiere politiche di sinistra.

La realtà dei fatti viene fuori lentamente, narrata in prima persona e al tempo presente con una spontaneità disarmante, accresciuta dalla naturalezza del set, le stanze del comitato di quartiere Alberone. E la freschezza dei dialoghi resta intatta anche quando, nelle scene in esterno, Celestini smette di essere presenza fuori campo, occhio-camera-osservatore, ed entra come personaggio-se stesso-intervistatore. Del resto, Maurizio, Cecilia, Salvatore... raccontano il proprio vissuto, l’organizzazione del collettivo, gli scioperi, la lotta e l’intervento dell’Ispettorato del lavoro, che riconosce loro tutti i diritti dei lavoratori dipendenti, e poi quello dei sindacati, per chiudere un accordo deludente e avallato dal Governo. Bravo Celestini, è riuscito ad armonizzare dettagli tecnici e legislativi con emozioni e sentimenti (il 28 e il 30 gennaio, sono in programma due serate di sottoscrizione per il collettivo PrecariAtesia, al Teatro Ambra Jovinelli di Roma e al Cinema Apollo di Milano, con la proiezione di Parole sante).

Un film sul lavoro, che al di là del suo genere documentaristico, fotografa l’attualità e fa tornare in mente l’ultima, eccezionale opera di Ken Loach, In questo mondo libero... Didascalico e spietato nella cura dei particolari, il regista britannico descrive le odierne e aberranti mutazioni delle forme lavorative. Dove precarietà e flessibilità non sono semplicemente condizioni di lavoro, ma esistenziali. Sconquassano identità e valori, svuotano di significato parole come libertà, democrazia, solidarietà. Loach, che non è certo un debuttante nel trattare tematiche del lavoro, qui sceglie di coniugarle ai temi tragici dell’immigrazione (anche questo già frequentato) e della “globalizzazione”. Ne tira fuori un’opera possente di immagini e contenuti, una visione che ammutolisce lo spettatore per la sua completezza. E quel suo dichiararsi di parte, che a ogni scena è sempre più evidente, insieme al comporsi del suo atto d’accusa.
Nel sottoproletariato urbano e immigrato Angie (Kierston Wareing), già sfruttata e appena licenziata, attinge la manodopera per la sua nascente agenzia interinale, perdendo via via ogni scrupolo, in uno sforzo ambizioso che già la pesante moto nera che cavalca ne sembra metafora. Tutti congruenti con l’asciutta sceneggiatura (di Paul Laverty) sono i personaggi, che in poche battute disegnano un’intera esistenza. Il giovane polacco (il bellissimo Lezlaw Zurek) e il padre di Angie, mentore inascoltato e con l’orgoglio di appartenenza, portatore di quella che ora è solo memoria di una coscienza di classe, operaia, frantumata, in questo nostro mondo libero.

Ascanio Celestini lo dice presentando il nuovo ceto, intellettuale e proletario, povero anche se lavoratore, perché sfruttato e sottopagato. E forse inconsapevolmente lo dice anche Signorinaeffe, la nuova pellicola di Wilma Labate, raccontando la sconfitta dei lavoratori Fiat in quel 1980, che segna l’inizio del lento declino delle classe operaia e delle sue lotte. Ma qui i 35 giorni di sciopero nella più grande fabbrica italiana restano schiacciati dalla storia d’amore consumata tra due giovani proletari, un operaio (Filippo Timi) e la figlia di un ex operaio (Valeria Solarino), laureanda in matematica e impiegata ai piani alti e già informatizzati della stessa Fiat. Bella e docile, Emma sta tentando la scalata sociale, sposando un ingegnere vedovo e con una figlioletta a carico, un bravo Fabrizio Gifuni, troppo giovane e affascinante per rendere convincente il personaggio, anche se perfido al momento giusto, non per avversione di classe, ma per disperazione d’amore. Nonostante la partecipazione di bravi interpreti (tra gli altri, Fausto Paravidino, Sabrina Impacciatore e un’intrusione di Ulderico Pesce) e un soggetto forte, Signorinaeffe sembra un’occasione perduta. Le scene intime sono fredde e quelle corali inesistenti, supplite da filmati di repertorio che per fortuna ricreano il clima caldo di quei 35 giorni di lotta e di speranza. Scritto a sei mani (oltre a Labate, Domenico Starnone e Carla Vangelista), il film è a basso costo e con il contributo ministeriale, ma allora, forse, si sarebbe potuto realizzare un bel documentario, attingendo il girato dell’epoca dalle Teche Rai. E’ quello che ha fatto Francesca Comencini con In fabbrica, lo vedremo in sala nei prossimi giorni.