René Magritte - Ceci n'est pas une pipe
René Magritte - Ceci n'est pas une pipe
Alberto Giacometti - Il cubo
Alberto Giacometti - Il cubo

Anno 1 Numero 05 Del 4 - 2 - 2008
Sguardi senza volto
Il teatro dell’aura di Georges Didi-Huberman

Attilio Scarpellini
 
Strano libro, Il gioco delle evidenze di Georges Didi-Huberman, appena tradotto da Cinzia Aruzza per Fazi – e pubblicato spalla a spalla con il corposo Postmodernismo di Fredric Jameson: da una parte esso parla di aura, questo concetto benjaminiano su cui il filosofo francese ha fondato gran parte della sua critica dell’immagine – e della sua idea di un’immagine critica, dialettica – dall’altra attraversa uno dei periodi dell’arte contemporanea, quello dalla scultura minimalista o letteralista americana, più segnato, in teoria e in apparenza, da oggetti irrelati, semplici, chiusi in se stessi. Modernisticamente orgogliosi della propria specificità e talmente privi di latenza – di interiorità – dal sottrarre la propria potenza volumetrica (per lo più si tratta di grandi cubi che vanno dalla più ottusa opacità alla più scoraggiante trasparenza) a ogni spazialità preconcetta e a qualunque equivoco di significazione: art without feeling dove si vede tutto quel che si vede (what you see is what you see come dice Donald Judd) e niente di più. Puro volume, mera tautologia: “davanti a essi – commenta Didi-Huberman - non ci sarà niente da credere o da immaginare perché non mentono, non nascondono niente, nemmeno il fatto di essere vuoti.” Questi oggetti visivi che corrispondono senza resti ai propri confini sospendono ogni capacità ulteriore di immaginare, risucchiandola nel loro muto ingombro, e dunque ogni possibilità di rimettere in gioco quel movimento dell’assenza nella presenza – del lontano nel vicino - che “inquieta la visione”, ritraducendo lo spazio nel tempo secondo la modalità dell’aura. Dal “Questa non è una pipa” di Magritte che sanciva l’autonomia della figurazione, nel mentre rompeva l’illusione identitaria della rassomiglianza, si passa al “Questo è un parallelepipedo di acciaio inossidabile…” dove è l’identità a farla finita con il sospetto della somiglianza, con l’analogia del visibile (con il testo…) e soprattutto, con l’antropomorfismo dell’icona. Ma, uccidendo preventivamente ogni alterità, proprio l’accento sulla certezza di quel che si vede porta la tautologia modernistica su un piano speculare alla raffigurazione fideistica dove la visione è sempre l’indizio di una certezza che invece non si vede. La tomba rappresenta il tramite figurale di questa specularità tra fede e tautologia: essa è il costantemente dischiuso nel suo svuotamento metafisico, con l’Angelo che accanto al sepolcro indica il cielo nella Resurrezione del Beato Angelico (una delle prime immagini proposte dal libro), o il disperatamente chiuso nell’ermetica evidenza dell’oggetto, il Coffin “senza titolo” realizzato nel 1971 da Joel Shapiro. Nell’alto dei cieli o six feet under – soggetto glorioso nella sua vittoria sulla materia o definitivamente offuscato dall’accecante potenza dell’oggetto: tra queste polarità “totalitarie” (nonché entrambe metafisiche) l’aura, e precisamente quel resto di aura che Walter Benjamin sentiva aleggiare anche tra le rovinose vestigia della modernità, riapre inaspettatamente una strada o come direbbe Didi-Huberman, una dialettica…

Qualcosa fa vibrare l’inerzia sovrana delle opere della minimal art risoggettivando ciò che sembrava inizialmente refrattario a qualunque attraversamento linguistico: ciò che si dava a vedere senza offrire alcuno sguardo – senza voltarsi verso chi lo sta guardando poiché “avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare” (W. Benjamin). E questa movenza che risoggettivizza l’oggetto fino a trasformarlo in una specie di soggetto – una specie di volto o forse uno sguardo senza volto – nel percorso fenomenologico del Gioco delle evidenze prende il nome di teatro. Davanti al Black Box di Tony Smith, un’opera che nel 1961 inaugura la stagione minimalista, il critico Michael Fried reagisce con un moto di idiosincrasia: proprio nel suo tenere a distanza lo spettatore, dice, questo imponente cubo nero innesca una drammatizzazione impropria, un’esperienza non dissimile “da quella che consiste nell’essere tenuti a distanza o invasi dalla presenza silenziosa di un’altra persona.” Sotto le mentite spoglie di un’adesione “letteralista” all’oggettività si nasconde un nuovo genere di teatro e il teatro “è ora la negazione dell’arte”. Nella compiuta autoreferenzialità formale del modernismo artistico, il teatro è un anacronismo, una retorica che va stigmatizzata perché reintroduce un antropomorfismo, sia pure nelle fattezze di un difetto di umanità che si rovescia d’un colpo in una tragica presenza silenziosa. Fried si comporta come i filosofi speculativi che usano sprezzantemente la parola “letteratura” per liquidare gli eccessi di inquietudine del pensiero (e da parte nostra, teniamo da conto questa idea negativa di teatro come elemento di squilibrio dell’utopia formale del Novecento: quando non si può fare a meno dell’umano si “cade” nel teatro…) Ciò che Fried non sopporta, annota Didi-Huberman, è di essere toccato da qualcosa che per principio non lo dovrebbe toccare. Le opere di Smith e di Morris “gli danno letteralmente i brividi, come un colosso o un idolo cicladico darebbero i brividi a un iconoclasta: perché esse innescano un’efficacia fantasmatica che egli aborre, attraverso gli strumenti che egli adora, quelli aniconici della specicifità formale, della pura geometria.” C’è dunque un iconismo che dal più irreprensibile deserto della figurazione – dall’ascetica forma “semplice” che voleva rinunciare all’immagine – riaffiora per difetto, indicando l’umanità per dissomiglianze, “nel luogo stesso della sua mancanza, della sua sparizione”. E questo è precisamente il dramma. Ma c’è anche un gioco di reminescenze che dai giardini di acciaio Corten dei minimalisti americani arretra verso gli altrettanto enigmatici giardini di pietra di un passato millenario, tanto che Didi-Huberman non può resistere alla tentazione warburghiana di accostare un’immagine dei Ten elements di Tony Smith (1975-79) ad una dei Megaliti di Swinsde (periodo neolitico). Arcaismo? No, semplicemente l’attivazione di quell’ “arte della memoria necessaria a ogni opera per trasformare il passato in futuro”. Ovvero – del buon uso dell’aura per superare dialetticamente il dilemma tra fede e tautologia (tra nostalgia e modernismo) e ritrovare nel contemporaneo la contraddizione dell’ anacronismo, il tempo metastorico dell’immagine. Perché è nell’istante in cui il vicino appare come lontano – ferito dalla sua stessa perdita – che “il visibile esplode” e l’immagine ci guarda. In quel momento ce que nous voyons – come suona il titolo originale del libro – diviene ce qui nous regarde.


Georges Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, trad. di Cinzia Aruzza, Fazi Editore, Roma 2008 pp. 226, Euro 26, 50