Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 05 Del 4 - 2 - 2008 |
La tomba e l’altare |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
Un giorno, di qualche anno fa. Un giorno qualunque. Sulla soglia del palazzo in cui lavoravo - quello che Capossela in un primo maggio sangiovannino definì «un luogo di angeli» - appariva per l’appunto un angelo. Stampato contro la parete. E poi lo stesso angelo, nell’androne. Era passato -STEN-, street artist, romano che in questi anni ha abbattuto il diaframma fra la strada e l’arte tout court, in una parabola romantica, molto poco italiana, che riporta alla New York pop, al pop degli anni ’80, ai graffiti di Haring o anche, di segno opposto, a quelli di Samo/Basquiat. Quella di –STEN-, sulle pareti della mia “casa” di allora era una sorta di benedizione, arrivata con modalità bibliche, un marchio che una notte si posa sulla tua porta e che definisce l’identità della tua razza. Ed era appunto così, perché l’angelo di –STEN- non era un angelo classico, ma aveva il volto di una ragazza qualsiasi, con un maglioncino e un’aureola chiara attorno alla testa. Un angelo inconsapevole, un angelo qualunque. E infatti quella stessa ragazza appare tra gli ingrandimenti di francobolli con facce irriconoscibili di presidenti o di eroi nazionali nella mostra dell’artista romano che in questi giorni si sta concludendo all’Avantgarden gallery di Milano. Siamo in pieno pop, anche qui. Con la storia dello street artist che finisce in galleria. E con la fortuna di un incisore che fa della strada un mezzo e non un fine. Basta seguire l’evoluzione tecnica dello stencil nel suo lavoro, che pezzo dopo pezzo viene stravolta, scavata, rivoltata, indagata alla radice e che appunto per questo smette di essere una tecnica e diventa una forma. Così è dunque anche il supporto - il “dove” - che non è un dove qualunque, una qualsiasi parete vuota, una fiancata di treno, ma un luogo d’elezione, una parte imprescindibile dell’opera. Della città quindi –STEN- recupera la morfologia radicale. Nella strada la sua opera non agisce come un virus che attacca coprendo le superfici, ma come un enzima che trasforma i muri in finestre e ne svela gli interni o vi imprime gli impalpabili passaggi che si consumano sui marciapiedi. Per far questo, negli anni, i visi sono diventati irriconoscibili, dalle icone pop del cinema - cui si addice l’aggettivo “classiche” -, si è passati agli stencil realizzati su istantanee scattate dall’artista stesso a persone sconosciute - decisamente più “contemporanee”. Fino appunto alla fusione operata in quest’ultima mostra che mischia le carte azzerando la distanza, fra noto e ignoto, fra riconoscibile ed irriconoscibile, portando alla sintesi un processo di evoluzione dell’icona che raggiunge oggi il suo limite. Al di fuori dell’ “arte per davvero” e dunque del lavoro di –STEN-, infatti, la produzione iconica che abbandona il mondo dei divi per scendere fra i comuni mortali, mostra tutti i suoi risvolti minacciosi, come quando solo un paio di giorni dopo l’arresto di Rudy Guede spuntava in una fiera d’arte a Roma una tela che fissava il fotogramma di una sua stravista apparizione su youtube. E’ l’avverarsi della celeberrima dichiarazione warholiana sui quindici minuti di celebrità, che a contare bene si trasforma in una profezia mostruosa e apocalittica coniugata al presente. Quindici minuti per ogni abitante della terra significa novanta miliardi di minuti di celebrità da smaltire, novanta miliardi di minuti di celebrità che pendono sulla società, novanta miliardi di minuti di aspettativa di celebrità impigliati quotidianamente tra gli ingranaggi del mondo. E se è vero che un’icona è di fatto il sarcofago del niente, giacché per produrla ogni soggetto e ogni volto viene distillato fino a ridursi ad una combinazione elementare di linee e tratti incapaci di trattenere contenuto, allora tutti quei minuti sono un infinito tempo morto, un silenzio teso sopra la testa dell’umanità |