Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 06 Del 11 - 2 - 2008 |
Una democrazia alle radici dell’erba |
Un carteggio con Alexander Langer del 1987 |
Massimiliano Biscuso - Attilio Scarpellini |
In mezzo agli stupidi, forse è proprio il profeta ad avere un’aria stupida. E’ quanto sembra indicare lo studio-spettacolo su Alexander Langer che il teatro di Bambs ha presentato pochi giorni fa a Savona (e che sarà di nuovo in scena il 16 febbraio alla Cantina Guernica di Imperia): Profeta tra gli stupidi – dice Andrea Brunello – Langer lo è stato fin dall’inizio e in più di una occasione. L’ultima fu quella della guerra nella ex Jugoslavia quando profuse il suo impegno da europarlamentare per cercare di spostare gli inamovibili Mulini a Vento dell’Europa di Maastricht e persuaderli a intervenire per evitare una catastrofe che ancora oggi proietta cupi contraccolpi sulla nostra attualità. Il 3 luglio 1995, mentre quella guerra toccava un culmine ferocia, Langer si suicidò a Pian dei Giullari, impiccandosi a un albero di albicocco. Anche quel suicidio da uomo tradito per Brunello e Mirko Artuso “nasconde una profonda verità sul mondo”. Ma una verità profonda è spesso un grande equivoco sulla superficie del mondo. Un passo indietro e si ritroverà lo sconcerto dei compagni di allora e di sempre (la militanza verde di Langer affondava le radici nell’esperienza di Lotta Continua) per quel suicidio, con qualche agghiacciante e sintomatica stonatura: un commento di Marco Pannella – ad esempio – metteva quella fine sul conto di un certo romanticismo politico di area tedesca a cui il sudtirolese Langer sarebbe per cultura appartenuto. Considerato irrealista persino dagli irrealisti, Langer, più che il leader era, come dicono giustamente Brunello e Artuso, l’anima di un movimento che l’avrebbe persa abbastanza presto per confondersi nel paesaggio disanimato e spettacolare della rappresentanza politica in versione Seconda Repubblica. Era un non-violento in un pacifismo spesso a buon mercato. Era un intellettuale di frontiera – linguistica, culturale – in un paese che, abituato a seppellire le diversità, preferisce fingere di non averne alcuna. Era un uomo di dialogo costretto a esercitare una doppia minoranza, una doppia dissidenza tra un’identità che non lo riconosceva in quanto “tedesco” e un’altra che lo misconosceva come traditore. Era un individuo etico in una cultura politica dove l’indignazione moralistica avrebbe finito per prendere – faute de mieux – il posto della morale. Così, abbiamo pensato di riprendere oggi alcune sue parole pronunciate molti anni fa (venti per l’esattezza), per vedere anche noi, come il teatro di Bambs, quale corto-circuito (la profezia è sempre un corto-circuito) quel passato produce in questo presente. Una democrazia alle radici dell’erba era un’intervista che Massimiliano Biscuso (il futuro autore con Franco Gallo di Leopardi anti-italiano) e io raccogliemmo e pubblicammo su una rivista, “Corrispondenze”, che dirigevamo insieme e che uscì per due soli numeri tra il 1987 e il 1988. Il numero si intitolava “Vivere senza rivoluzione”: si era in pieni anni ottanta, anni di riflusso (come dice la vulgata) o di ripiego (come qualcun altro li descrisse) che l’esplosione di Chernobyl aveva appena illuminato di una luce inquieta. Sotto quella luce violenta e “faustiana”, il socialismo reale e il capitalismo avanzato sembravano meno lontani. La rivista era abbastanza clandestina (scrissero comunque, in quel numero, Giacomo Marramao Adam Michnik, Robert Bonnaud, Mauro Martini, Mauro Vespa, Giuseppe Manfridi, Mario Sesti, Rodolfo Granafei) perché il nostro carteggio-intervista con Langer sfuggisse poi ai repertori postumi di scritti e interventi del leader verde. Lo stile è quello “lento” dell’epoca (verso il quale, oggi, non mi sento di provare altro che un’invincibile quanto ingiustificata nostalgia) accentuato dalla precisione e dalla limpidezza della lingua in cui probabilmente Langer si auto-traduceva. Non sta a me dire se e cosa gli estratti di quel dialogo raccontano ancora. Di certo, qualche labbro realistico si incresperà in un sorriso di condiscendenza nel leggere che la rappresentanza, quando abdica alla sua luogotenenza, diviene una superstizione, un’idolatria che uccide i movimenti. Per non dire dell’articolazione virtuosa del singolo e della comunità locale come soggetti di un agire politico nuovo, del rifiuto di una prassi “chirurgica” del mutamento storico o della diffidenza verso una dimensione di intervento – il globale! – divenuta ormai un’astrazione obbligatoria. Ma è anche chiaro a tutti – a cominciare dagli interessati – quanto sia corto, e stanco, il respiro che si nasconde dietro quei sorrisi. (a.scar.) Come i movimenti rivoluzionari di ispirazione marxista, l'ecologismo politico si presenta sotto l'aspetto di inversione radicale della sto¬ria é del suo senso (che non è più identificato nello sviluppo materiale), ma non lotta più per la liberazione dell'uomo dalla schia¬vitù della disciplina capitalistica del lavoro, bensì per la liberazio¬ne dalla paura della catastrofe ambientale, per la salvezza della biosfera. Il movimento verde sembra così conservare il carattere salvifico ed escatologico delle rivoluzioni, forse anche la stessa tensione alla totalità (la biosfera), ma non sa più indicare il soggetto rivoluzionario (…) A guardare meglio si scoprirà che l'approccio ecologico potrà essere forse definito rivoluzionario per la radicalità della critica all'ordine sociale ed :economico esistente e per la profonda alterità tra una logica di equilibrio.ecologico e quella predominante, di sviluppo espansionistico e di accrescimento generalizzato, ma non perché proponga un progetto o un',utopia con le caratteristiche che rivoluzioni o i disegni rivoluzionari hanno avuto. Della concezione rivoluzionaria, fa parte - almeno nella storia dei tentativi rivoluzionari esplicitamente tali, coronati o meno che fossero dal successo - una concezione fortemente interventista, arbitraria, "chirurgica", di rottura. della continuità storica. La vicenda sociale viene vista come un percorso plasmabile e anche radicalmente modificabile dall'intervento di avanguardie consapevoli e fortemente determinate. La vischiosità e la lentezza estrema dell'evoluzione naturale (i «tempi biologici»), ed anche la vischiosità e la lentezza pur. sempre consistente dell'evoluzione sociale e culturale (i «tempi storici») in una visione rivoluzionaria subiscono la brusca accelerazione o interruzione, de¬viazione o forzatura dell'intervento soggettivo rivoluzionario. Se questa è l'accezione del termine "rivoluzione", penso che i verdi vogliano proprio «vivere senza. rivoluzione» (…) Ma c'è anche un'altra ragione, oltre alla maggiore attenzione e sensibilità per i processi evolutivi e alla minore fiducia nell'onnipotenza demiurgica del soggetto rivoluzionario o dei progetto utopico, che oggi sconsiglia ricette rivoluzionarie ai verdi. La dimensione e la portata dei grandi interventi umani nella storia sono ormai caratterizzate da un tale dispiegamento di potenza tecnologica, industriale, di grandi macchine, di enormi leve, di profonde ferite inferte al pianeta e al corpo sociale, che il desiderio verde di «tecnologie appropriate e facilmente correggibili» ne fa profondamente diffidare. Il rifiuto o almeno il ricorso più limitato possibile ad interventi irreversibili (…) non si esplica solo nei confronti delle "grandi opere" che sfigurano e mutilano l'ambiente naturale: tende, tra gli ecologisti, ad essere un criterio utilizzabile anche per cercare modalità e dimensioni "appropriate" per l'intervento sociale e storico. Anche perché è ormai ampiamente dimostrato che quei grandi cambiamenti imposti da potenti soggetti con i loro interventi accentratori e pretenziosi (governi o giunte rivoluzionarie, Stati e stati maggiori, e così via) non raggiungono la profondità delle radici e non si trasformano in costume e convinzione e - soprattutto - non promuovono autonomia e capacità di autodeterminazione diffusa (…)Dopo di che potremmo forse individuare due tipi di "soggetti": il singolo e la comunità locale. Il singolo: se la responsabilità ecologica ed una condotta ecologicamente compatibile e lungimirante (che è una q,uestione anche di profonda e radicale solidarietà!) non possono - e non devono! - essere primariamente frutto - della coercizione auto¬ritaria o di costanti interventi di controllo e di repressione, non c'è dubbio che l'etica di ogni singola persona diventa, nel bene e nel male, un fattore decisivo. E non mi riferIsco solo all'etica di chi sta nel laboratorio delle «biotecnologie» o ai bottoni della bomba atomica, ma anche all'etica quotidiana di chi può sporcare o ripulire, ferire o guarire, accaparrare o condividere, distruggere o rigenerare, disprezzare o rispettare i limiti e così via. Non solo sarebbe moralmente e politicamente inaccettabile un sistematico dirigismo ecologico imposto attraverso costrizioni e controlli costanti - ma sarebbe anche in larga misura inefficace, come le esperienze dirigiste in altri settori testimoniano e come è facilmente intuibile se si pensa alla diffusa vulnerabilità dell’equilibrio ecologico. Nel singolo, quindi, troveremo il primo «soggetto della rivoluzione ecologista», e per quanto la paura e l'istinto di sopravvivenza da un lato e il desiderio di diversa e migliore qualità della vita dall'altro potranno concorrere a sviluppare impulsi e spinte in direzione di scelte ecologiste, non avranno consistenza e globalità sufficiente se non saranno sostenuti e potenziati da una profonda e radicata etica che ci faccia riconoscere che «la terra ci è data solo in prestito dalle future generazioni» ed agire di conseguenza. Anche contro certi miopi e apparente¬mente preponderanti interessi contrari. La comunità locale: l'astrattezza della percezione dell'emergenza ecologica e di un'etica di responsabilità verso il pianeta e la vita su di esso diventa concreta e verificabile nella comunità locale. Un interesse a mantenere e rigenerare equilibri ecologicamente compatibili – per esempio nell'uso del suolo, dell'acqua, delle risorse naturali. Se non si vuole pensare che la fruizione responsa¬bile e lungimirante dell'ambiente e l'attuazione di una "misura" a dimensione umana ed ecologica debba essere garantita principalmente da controlli e permessi, divieti e sanzioni, bisogna cercare un luogo in cui le ragioni dell'ecologia e quelle della democrazia (…) siano concretamente conciliabili. Non vedo altro luogo possibile se non la comunità locale, pur rendendomi conto che questo riferimento in un'epoca di grandi migrazioni e forte instabilità sociale e territoriale, di inurbamento abnorme e distruzione di gran parte dei vincoli tra l'uomo e il suo territorio non è dovunque immediatamente attivabile. Ma dove, se non in una dimensione di comunità locale, è pensabile ed attuabile una grass-roots-democracy, una democrazia che vada alle radici dell'erba, e non solo in senso metaforico? (Mi permetto, infine, di osservare che non si potrà certo dire dei verdi che «non lottano più per la liberazione dell'uomo dalla schiavitù della disciplina capitalistica del lavoro» al contrario, i verdi non si accontentano neanche di un passaggio di titolarità di questa disciplina. “Desistere”, “rinunciare”, “dimettersi”… le parole-chiave proposte da Adriano Sofri per caratterizzare la novità del "discorso" ambientalista sembrano tutte ispirate ad una volontà di sottrazione, a un'etica privativa a cui non è estraneo anche un certo valore espiatorio (…) Non è più il potere il problema ma l'autonomia nei suoi confronti. Socialdemocratica o leninista, la sinistra fatica a legittimare questa volontà di autonomia che non la riconosce più. necessariamente come luogo di sintesi ideologica e di mediazione politica. Ritiene che queste tensioni (…) possano configurare, al di là delle emergenze a cui rispondono, una vera e propria reinvenzione della politica? Sì, lo credo. Di una politica anch'essa meno dominatrice e meno convinta di far funzionare una specie di ingegneria o di pianificazione della storia, e che consenta la coesistenza di diverse scelte di vita personale e comunitaria. Che cioè non si proponga soltanto di modificare le regole del gioco della corsa produttivista e consumista (o, addirittura, di fermarla), ma che permetta intanto a chi non vuole partecipare a questa corsa di uscirne, e di mettersi a costruire delle sperimentazioni alternative. Che consentano, cioè, di praticare ciò che si crede e che si vuole anche senza aspettare l'ora X, e senza farlo dipendere da essa. La politica dalla. quale io, per esempio, provengo, richiedeva un forte accumulo collettivo di speranze, energie, volontà, azioni, in vista di un cambiamento concentrato anch'esso in un ideale punto "più alto", centrale e determinante tutto il resto. Una politica verde si dovrà affidare non alle battaglie frontali e campali, dove si concentrino e si spendano massicciamente tutte le forze degli schieramenti in campo, ma alla disseminazione diffusa di "fronti" e di "luoghi" dove affermare e praticare le ragioni ecologiche, e di soggetti individuali e collettivi che ne sia¬no protagonisti. Una politica non più piramidale, gerarchica, centralizzabile, ma fatta più a modo di rete, anche informale, e di policentrisimo. La difesa delle «radici», delle particolarità, può essere compatibile con la soluzione di problemi che, trascendendo le prerogative e le possibilità dei singoli Stati, richiedono soluzioni globali (penso alle pioggie acide o al nucleare di pace e di guerra), e quindi una capacità di progettazione planetaria? L'esito che hanno avuto finora le “progettazioni planetarie” - anche la stessa fissazione di valori-limite all'inquinamento, di autorità interna¬zionall preposte al rispetto di certi vincoli, di convenzioni interstatuali per attuare misure transconfinarie di protezione ecologica, ecc. - non è particolarmente lusinghiero. Ma sicuramente si dovrà agire anche a quel livello, peraltro sottoposto ai ben conosciuti limiti del diritto internazionale che riveste sostanzialmente la qualità di raccomandazione e di dichiarazione di intenti, assai difficilmente coercitivi quando cozzano contro interessi appena un po' più consistenti legati a questa o quella sovranità nazionale. Penso che una trasformazione in senso fortemente federativo degli ordinamenti e delle relazioni tra Stati e comunità locali, ed una rivalutazione delle «radici» come concreto richiamo alla solidarietà tra generazioni presenti, passate e future siano passaggi necessari per preparare efficacemente il terreno a soluzioni che difficilmente potranno essere chiamate «globali» (anzi, forse c'è proprio da diffidarne!), ma che potranno concretamente unire l’ “agire locale” a un “pensare globalmente”. Non teme che da un'istituzionalizzazione dell'ambientalismo (ad esempio attraverso la rappresentanza elettorale) possano scaturire dei pericoli quali l'introduzione di logiche settarie tipiche della società politica e della partitocrazia? Insomma, i rischi della contaminazione politica... Il rischio di contaminazione politica è ben presente, come del resto le esperienze dei verdi anche di altri paesi dimostrano. Ma penso sia un rischio da correre, con la lucida consapevolezza dei limiti che lo strumento politico di per sé comporta. Solo chi vedesse nella rappresentanza politico-parlamentare una specie di guida e coronamento di movimenti sociali e di opinione e avesse una vecchia concezione gerarchica e verticale del circuito tra azione sociale e rappresentanza istituzionale, potrebbe però accettare di ridurre «i verdi» alla loro proiezione politico-rappresentativa (dall'esterno) o pretendere omogeneità e compattezza dietro le bandiere della rappresentanza elettorale (dall'interno). Penso che i verdi farebbero bene ad affermare con maggiore convinzione e coraggio i loro valori ed i loro obiettivi in tanti e tanti comportamenti pratici piuttosto che definirsi principalmente in relazione alla rappresentanza politica o, peggio, concentrare i loro sforzi a selezionare, far eleggere e poi controllare la rappresentanza politica. Mandare dei rappresentanti nelle istituzioni, a certe scadenze ed in certe circostanze, può essere utile purché non assorba troppe energie dei verdi. Vedremo cosa ci riserverà l'esperienza italiana in proposito - io spero fortemente che ogni forma di rappresentanza verde si attenga con modestia al concetto e ad un ruolo di «luogotenenza». Nell'arcipelago verde le posizioni sono molto variegate é spesso filtrate dalle analisi tradizionali della sinistra. Laura Conti, ad esempio, sostiene che se la sinistra storica sbaglia quando considera con sospetto le lotte ambientaliste, queste ultime costitui¬scono d'altra parte il modo più aggiornato per costringere il capitalismo a entrare in contraddizione con se stesso attraverso le politiche di tutela ambientale... cosa ne pensa? Se la sinistra vede nella logica è nel sistema di profitto la molla che regge ed orienta lo sviluppo, potrà giustamente rallegrarsi che oggi per molta gente si aggiunge, attraverso la critica ecologista, un nuovo e forte motivo per opporsi al trionfo dei profitto. Se essere di sinistra vuol dire affermare e praticare la superiorità di obiettivi di giustizia e di liberazione umana rispetto agli obiettivi di redditività e di espansione economica, l’approccio ecologico dovrà essere salutato come un potente e non solo moralistico rafforzamento del fronte delle ragioni che si oppongono al primato di un'economia che sembrerebbe avare inscritte le proprie finalità quasi fossero leggi di natura. Credo che persone come Laura Conti vedano quindi (secondo me assai positivamente) nell'ecologia quasi una rigenerazione profonda, salutare e liberatoria del loro essere di sinistra e un banco di prova per rivedere, correggere e modificare molte delle loro convinzioni, senza abbandonare un'ispirazione di fondo fatta soprattutto di generosità e di solidarietà. Per loro non si può, oggi, “essere rossi senza essere (anche) verdi”. Ovviamente non potrei più essere d'accordo se questa relazione si invertisse, se cioè si pretendesse che «non si può essere verdi senza essere rossi», come uno slogan nato già vecchio ogni tanto ripete. Probabilmente assistiamo, ed assisteremo ancor più in futuro, a tanti tentativi - di sinistra, del mercato, di centro, di destra... dell'industria, ecc. - di ridurre l'ecologia ad una specie di optional che migliora il prodotto già esistente attraverso una pennellata di Verde. Ma così come il capitalismo non potrà semplicemente inglobare le ragioni ecologiche attraverso l'aggiornamento di alcuni meccanismi (filtri, depuratori, eco-articoli...) senza rimettere profondamente in discussione la logica del proprio sviluppo, anche la sinistra che abbiamo finora conosciuto (e frequentato, da vicino) non potrà semplicemente aggiungere l'ecologia tra i suoi punti programmatici, sperando così di aumentare il numero di frecce disponibili contro il capitalismo: più che di frecce, si tratta di, boomerang, come si comincia qua e là a capire. (Roma - Bolzano, giugno/agosto 1987) |