Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman

Anno 1 Numero 07 Del 18 - 2 - 2008
More than Reality
Internamento ed esclusione nella società iperrealista

Attilio Scarpellini
 
In una intervista del 1990, a una domanda sul “controllo sulla comunicazione”, Gilles Deleuze rispondeva: “E’ certo che stiamo entrando in società di controllo che non sono più disciplinari (…) che funzionano non più per reclusione (enfermement), ma per controllo continuo e comunicazione istantanea.” Quindici anni dopo, Zygmunt Bauman dedica la prima figura del suo Paura liquida al Grande Fratello (il format televisivo multinazionale, ovviamente: il suo originale orwelliano è ormai pura archeologia letteraria) che già lo aveva affascinato come metafora di una società aperta e nello stesso tempo votata all’esclusione, in altri capitoli di della sua lunga saga sulla “modernità liquida”. E’ il 3 giugno del 2005, annota pazientemente l’ultraottantenne sociologo polacco, “mentre scrivo queste righe sarebbe un giorno normale, difficilmente distinguibile dagli altri, se non fosse per una cosa: cade oggi l’Ottavo Giorno della Sesta edizione del Big Brother…la primissima di una lunga serie di giorni di Eliminazione.” Ironia della sorte, anche mentre io scrivo queste righe sul Bauman del 2005 letto nel 2008, sugli schermi italiani va in onda una nuova edizione del Grande Fratello, e di settimana in settimana il fato in versione democratica abbatte i concorrenti in esubero finché un solo Highlander otterrà il lauro della vittoria o – il che è lo stesso – la patente del sopravvissuto. Ma forse è ancora più ironico l’intreccio tra il presentimento deleuziano sull’incombente egemonia del “controllo continuo” e della “comunicazione istantanea” e la situazione raccontata da Bauman per esemplificare la paura della morte secondo i post-moderni. Lungi dall’essere semplicemente superata, infatti, la stessa idea di reclusione è inglobata nell’eterno presente televisivo come una superficie senza più fondo.

Ora che gli stati totalitari sono usciti di scena, la logica disciplinare può trasformarsi in gioco: sul set dei reality più in voga ci si rinchiude volontariamente (anzi si fa a botte per entrarci), la Casa è soltanto un simulacro spazio-temporale, dove tuttavia a scorrere è un tempo autenticamente biologico, una giornata di Ivan Denisovic saviamente controllata. Mentre in quel fuori segregato che è l’Isola – spazio privilegiato di tutte le Utopie ma anche di tutti gli Esili e i Confini carcerari – un turismo estremo recupera ciò che è per definizione escluso, cioè la natura, in una parodia di purificazione grazie alla quale la società dello spettacolo ricicla i suoi rifiuti - e l’individuo che non è riuscito a fare fino in fondo qualcosa può finalmente tornare a essere qualcuno. Il reality tende alla realtà della vita come l’arte iperrealista a quella dell’oggetto o della figura: inficiandola per allucinazione fino a rendere indecidibile ogni suo rapporto con la verità (sarà vero amore? si domandano gli spettatori davanti agli amplessi di Tizio e Caia nella Casa, esattamente come gli spettatori delle sculture more than reality di Duane Hanson entrano davanti ad esse in una vertigine di identificazione, scoprendo che “più” del reale c’è solo il simulacro). Le figure architettate o sognate dalle ideologie del controllo totale tornano, ma sotto specie di simulacri, ad aleggiare sugli spazi virtuali del reality show. Nel Grande Fratello, un occhio onnipresente sorveglia anche gli angoli più riposti della vita quotidiana (proprio come nel romanzo di Orwell) ma questa trasparenza un tempo oscena è divenuta nel frattempo desiderabile sia per chi guarda sia per chi è guardato, secondo i dettami di una schizofrenica società senza segreto che è nel contempo la più esibita e la più blindata, la più videosorvegliata e la più gelosa della propria privacy. Nell’Isola dei Famosi, un uomo nuovo risorge da un’esperienza di nuda vita, proprio come nelle ferree pedagogie di rieducazione totalitaria, ma poiché quando la storia si ripete, fortunatamente si ripete in farsa, il premio del suo sforzo non è il reinserimento nella comunità conformista da cui si era colpevolmente autoescluso (il reinserimento o la morte) bensì il salvagente per tornare a galleggiare sulle acque increspate dello star system e del conformismo individualista. C’è sempre un gioco di premi e di punizioni ma, dice giustamente Bauman, la sua unica legge è l’esclusione senza appello e il criterio della sua razionalità distributiva è imperscrutabile: in questo, la reality tv comportamentista è più sincera della società ufficiale, perché escludendo dalle proprie regole ogni giudizio di valore, ogni merito, ogni competenza (ma anche ogni amicizia, ogni solidarietà, ogni trascendenza rispetto alla solitudine dell’individuo) fa affiorare il mondo come realmente è, o come è iperrealisticamente divenuto more than reality…una snervante lotteria per l’esclusione in cui il Mercato indossa gli abiti del Fato. Non si tratta più di tenere le persone dentro, come voleva il Grande Fratello “disciplinare” del ‘900, ma di sapere come buttarle fuori, in quel mondo residuale in cui l’assenza di salvezza coincide con l’assenza di sguardo: non di “concentrare” ma di de-centrare fino alla completa emarginazione la minacciosa presenza dell’altro. “Chi viene cacciato non lo è perché sia cattivo, ma perché è nelle regole che qualcuno debba venir espulso, e perché altri si sono dimostrati più abili di lui nell’arte di mettere fuori gioco i propri simili, ossia di vincere al gioco che giocano tutti (sia chi elimina, sia chi viene eliminato”. Fa agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te (e prima che siano loro a farlo)…Tutte le secrezioni di panico sociale e di tremore esistenziale recensite da Paura liquida rispondono a questo incessante movimento di delocalizzazione di ciò che era dentro (il confine geopolitico, l’inclusione sociale del welfare state, la sicurezza del lavoro) in ciò che è fuori (il mercato extraterritoriale, la solitudine del cittadino globale, l’incertezza).

L’istituzione, come Deleuze aveva predetto, “evapora nello spazio globale” che il mercato occupa senza più resistenze e quasi senza più resti. Ma questa incapacità di controllare la velocità dei processi economici produce per contraccolpo un’enfatizzazione delle cosiddette politiche di sicurezza – che sono appunto quelle con cui una overclass globale vuole tenere fuori dalla porta di casa, e possibilmente lontano dagli occhi, quella variegata sottoclasse locale composta dai rifiuti della globalizzazione. Anche sullo sfondo di Paura liquida si staglia quel paesaggio di mutazioni metropolitane su cui Bauman si era già affacciato in Vite di scarto e soprattutto in un breve saggio intitolato Fiducia e paura nella città (Bruno Mondadori): una metropoli – o una “metacittà” direbbe Paul Virilio – divenuta il negativo della globalizzazione, sempre più plasmata dalla paura indeterminata per il nemico interno che si annida nella sua mescolanza divenuta d’un tratto insopportabile. Un’angoscia tanto spropositata quanto diffusa, decisamente more than reality. E tuttavia un’incredibile riserva di credibilità per un marketing politico che il passaggio di sovranità aveva disarmato.


In libreria: Zygmunt Bauman, Paura liquida. Trad. it di Marco Cupellaro, Laterza, Bari 2008 pp. 234 euro 15.