Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 08 Del 25 - 2 - 2008 |
L’economia del “Mercante” |
I fondamenti del consumismo postmoderno nello Shakespeare di Civica |
Attilio Scarpellini |
C’è musica nel Mercante di Venezia di Shakespeare portato in scena da Massimiliano Civica e questo basta a ricordare la strana, quasi subliminale temporalità di altri suoi spettacoli: nella Parigina la completa assenza di musica si rovesciava in uno spasmo musicale continuato, in una straziante melodia che era il negativo del sentimentalismo ottocentesco di Becque. La semplice ripetizione di una sequenza di dialoghi tra Monica Piseddu e Gabriele Benedetti aveva il potere di innescare un tema. Nel Mercante la musica “entra” per modificare lo spazio, fa luogo di scenografia su una scena (come sempre) totalmente vuota, segna visivamente, quasi fiabescamente, il confine tra Venezia e Belmonte: è Porzia il tema, la sua veste rosso fiammante – come il punctum dell’imperiosa apparizione di Beatrice nella Vita Nova dantesca è il suo abito “sanguigno” - unica macchia di sangue nel fotogramma in bianco e nero dei suoi pretendenti che la seguono in fila indiana, camminando accovacciati come pinguini o come anatroccoli. Sempre uguale e sempre diverso, un frugale quanto leggiadro balletto, del tutto inedito nel teatro eleatico di Civica (dove la parossistica negazione del movimento serve di solito a distillare un’epifania anche dal gesto più lieve: come i tagli di Fontana sulla tela, o un segno qualunque in un giardino zen) scandisce l’ oroscopo di quella che, una volta in più, si rivela una triste, anzi tristissima commedia. Perché qui le parole fanno il contrario della musica e la fabula degli scrigni, come la presunta generosità di Antonio o la stigmatica avidità di Shylock – per non dire della differenza di valore tra un’economia del dono e una dell’interesse – vengono via via smontati dal lento ma fatale affiorare dell’evidenza nascosta del testo alla superficie del teatro. Se nel Mercante di Venezia ci sono due mondi, due economie che si avvicendano e si combattono – una contrattualistica e l’altra della grazia da cui l’ebreo Shylock sarebbe escluso – Civica le fa corto-circuitare in ogni punto dello spettacolo. A cominciare dall’economia formale della sua stessa messinscena, dove quattro attori giocano i personaggi principali – Antonio, Bassanio, Shylock e Porzia – più tutti gli altri (e persino tutti gli altri oggetti) con una maschera sul viso. Fare di necessità virtù, in questo caso, non è solo un modo di dire: il primo effetto di questa ronde di mascheramenti è di irradiare il personaggio esaltando la potenza per così dire organica dell’attore (e quella della compagnia del Mercante è davvero notevole), il secondo è di smascherare l’illusione dell’oggettività narrativa, enfatizzando il gioco di proiezioni e di scambi che domina le molteplici relazioni del Mercante. Se gli scrigni di Belmonte sono tre uomini mascherati, sarà difficile sostenere con Freud che la scelta imposta dal padre della bella Porzia ai suoi pretendenti riguarda tre diverse donne. Ma se è la stessa Porzia ad avvicinarsi all’orecchio di Bassanio per suggerirgli la soluzione, quel mormorio discreto, ma effettivo, rivelerà l’evidenza che, come la lettera trafugata nel racconto di Edgar Poe, si nasconde sulla scena: l’unica regola di questo gioco è il desiderio. Togliendo parole dalla sua traduzione, e privilegiando le più dirette – le più consone alla dizione “a cera persa” dei suoi spettacoli – Civica mette a contatto l’ambiguità del testo con quel massimo di nudità che solo l’artificio del teatro può esibire: “scopre” l’omosessualità che lega Antonio a Bassanio e ne fa il codice muto (ma visibile) di un’economia sentimentale che pervade e corrode l’intera opera. Fino a ribaltare il significato del famoso debito di Antonio con Shylock in un’entropia di senso dove non è l’usuraio a esercitare la vera usura, perché ciò che corrompe il tempo in questo “teatro del mondo” non è la fungibilità del denaro, bensì l’instabilità del desiderio. Il Bassanio superbamente disegnato da Oscar De Summa (quasi attenuando il disinvolto mimetismo di un suo recente Riccardo III) è un perfetto prototipo di homo consumens: abituato a cercare una freccia perduta lanciandone un’altra – con la giubilante propensione al rischio di certa finanza creativa – sfrutta in ogni frangente il capitale immateriale di una seducente apparenza. Sul lato opposto, la tristezza sacrificale dell’Antonio a cui Mirko Feliziani presta tutta la sua sottile capacità di trepidazione ha ben altro da perdere che non le merci naufragate in mare e persino la vita che Shylock gli richiede esigendo la sua penale. E lo fa eloquentemente intendere quando, offrendo il petto all’esoso coltello del giudizio, fissa sfrontatamente gli occhi in quelli dell’amato, alzando la posta del desiderio, come direbbe Freud, al di là del principio di piacere. Tutti hanno qualcosa da perdere e finalmente, nel tentativo di avere tutto, la perderanno: persino la scintillante Porzia di Elena Borgognoni, primadonna naturale che porta i suoi spasimanti al laccio come la principessa il drago nel quadro di Paolo Uccello, pagherà il suo trionfo sul malinconico Antonio con l’amarezza di essere stata comunque tradita dalla doppiezza di Bassanio. Tutti desiderano ciò che loro sfugge verso un altro (e dunque di essere un altro: vestire i suoi abiti, come Porzia che fingendosi giudice indossa la giacca di Antonio) in quella generalizzata emorragia mimetica che, secondo Girard, struttura lo shakespiriano “teatro dell’invidia”. In questa borsa valori dove l’amore non basta mai a se stesso forse soltanto il secco, rassegnato Shylock interpretato da Angelo Romagnoli, che tra le lacrime evoca il turchese donatogli dalla moglie morta ( e trafugato come il resto, come la sua stessa identità, dalla figlia Jessica), ha veramente amato. Proprio lui: l’uomo più contaminato dall’impurità del capitale circolante, e appunto per questo deietto, escluso all’origine (e alla fine violentemente espulso) dall’accesso alla circolazione del desiderio di cui si nutre un’economia della spesa già molto postmoderna. Nel Mercante la Grazia finisce col punire la Legge senza riuscire a ricomporla nel proprio ecumenico orizzonte (colmo del politically correct, è costretta a…convertirla). Nello specchio di questa mesta apoteosi dell’esclusione che Massimiliano Civica si rifiuta di mascherare da happy end, Shylock e Antonio sono due capri espiatori che si guardano senza riuscire a riconoscersi. |