Anno 1 Numero 09 Del 3 - 3 - 2008
Au bout du voyage
Editorale

Gian Maria Tosatti
 
Attorno è la provincia americana. Indistinguibile, con le sue isole di servizio fioche, galleggianti lungo le statali, con le case tirate su asse per asse, spianate nella consecutiva serie di campi, giardini e roulotte. A meno di cinque metri dal garage ancora illuminato, spalancato come un ventre appena svuotato, l’automobile è già in panne. Ferma, con lo sportello aperto. Arresa. Senza alternative. All’interno dell’abitacolo, l’espressione confusa di un Ulisse contemporaneo avvolto dall’aura elettrica del veicolo e frastornato dalla marea sonora del motore. E’ un incidente. Solitario. Un incidente contro il muro invisibile del proprio orizzonte. Una fuga impossibile, mutilata nel suo senso stesso. A guardarla bene sembra la resa precoce di un assassino, schiacciato dall’azione compiuta mentre fuggiva dalla scena del delitto. Ma a guardare ancora meglio non c’è scena del delitto, il box prefabbricato da cui l’automobile è estratta - al cui interno si può immaginare una parete piena di attrezzi per la manutenzione fai da te e un soppalco con i resti di altre stagioni, stivati affianco alle sdraio di plastica in attesa dell’estate - è la tana stessa dell’autista. E’ la sua casa. La sua Itaca dalla invincibile forza di gravità. Il punto d’origine di una dimensione vuota in cui lo spostamento, la fuga, l’esilio o l’impresa non ha alcun senso, non ha alcun altrove. La pianura non finisce mai. E’ un’immagine dalla serie Beneath the Roses di Gregory Crewdson, in mostra fino a ieri al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Una delle molteplici rese di automobili con gli interni accesi a 15w e le portiere spalancate per far entrare aria; immobili al centro di incroci notturni in agglomerati fantasma, o in mezzo ad una strada qualunque, come un meteorite allo stremo. Eccoli i vascelli abbandonati, con dentro i nocchieri, abbandonati anch’essi alla deriva del giorno dopo. Ed eccole le odissee di cinque minuti. Più simili alle fughe del pensiero che alle avventure al di là dei propri limiti. Neppure si interrompono. Esauriscono a pochi passi da casa. Nei confini del proprio sobborgo esistenziale. Per questo le odissee del presente possono essere infinite, infinitamente frustrate, e ripetute dopo un sonno immemore e rigenerante nel letto adultero delle proprie mogli. E se così va per Leopold Bloom capostipite degli Ulisse del presente allora vale anche per tutti i suoi epigoni, per cui il ritorno non è più l’obiettivo, ma una condizione/condanna ineludibile. Fuori, non c’è nulla, o più esattamente non c’è il fuori. I confini del mondo sono ormai disegnati e il mondo è tutto sé stesso in qualunque punto della sua mappa. L’ultimo fuggiasco è proprio l’Ulisse omerico, che nel canto XXVI dell’inferno dantesco supera il limite estremo, le colonne d’Ercole ed esce dal mondo, là dove è il regno della morte. Per il resto, dal Tennesee a Shangai c’è Mc Donald’s, c’è la lingua inglese in web format. L’Odissea contemporanea è inutile. E’ un fallimento. Né più meno di come appare nel Voyage au bout de la nuit di Céline in cui lo sprofondo dell’Africa o le catene di montaggio di Detroit non sono che perversioni di una stessa, unica, intelligenza espansa come una coltre soffocante su tutto il pianeta. E un’Odissea mutilata, sistematicamente, è anche quella di Jack Kerouac, che nei Vagabondi del Dharma, scala la sua montagna per poi sempre riscendere e trovare tutti ancora cambiati, tutti ancora gli stessi, con nuove parole d’ordine, nuove proposte di esistenza, tutti in viaggio, sempre un passo più in là dopo una birra in più. Ed è coi suoi occhi stupefatti, i suoi occhi diffidenti, di naufrago a San Francisco, che si possono osservare tutte le odissee del presente e trovarle cinicamente inutili e necessarie, come lo sbattere d’ali dell’uccello in gabbia. Negli ultimi decenni questo sogno sconclusionato di folli voli ce lo ha raccontato Botho Strauss, che non ha fatto che scrivere odissee, con i suoi androni monumentali di alberghi in cui gli ospiti continuano a tornare, fingendo ogni volta una nuova identità per non confessare il proprio fallimento a quegli stessi viaggiatori, incontrati mille volte ancora con un nome e un vestito sempre diverso. Oggi, in una Germania che si affaccia ad Est, - e forse bisognerebbe dire “un’Europa che si affaccia ad Est”, ma completamente assorta nella dimensione del viaggio globale - il drammaturgo tedesco scrive un’Itaca in cui qualcuno torna per pagare il conto e per riprendere possesso di ciò che è suo. Ci pone una domanda che sta un passo avanti alla realtà. Il sogno è finito. Che ne sarà dunque dei sognatori?