Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 09 Del 3 - 3 - 2008 |
Una nostalgia senza ritorno |
La letteratura dell'Est europeo tra odissea ed esilio |
Attilio Scarpellini |
C’era una volta Petrovic, uno scrittore della letteratura non ufficiale sovietica che sopravviveva nella Russia di Gorbaciov custodendo gli appartamenti lasciati provvisoriamente vuoti da una nuova borghesia. Petrovic ha smesso di scrivere ma è abituato a portarsi sulle spalle, a mo’ di zaino, una macchina da scrivere di fabbricazione jugoslava che per altro è l’unica cosa che possiede. Petrovic è il protagonista di Underground ovvero un eroe del nostro tempo, un voluminoso romanzo di Vladimir Makanin che in Italia non è stato ancora tradotto (e forse con l’aria che tira non lo sarà mai) ma su cui Mauro Martini, geniale slavista morto a neanche cinquanta anni, apre L’Utopia spodestata, l’ultimo dei libri che ha dedicato alla Russia dopo l’Urss. E questo “eroe del nostro tempo” Martini lo descrive come una specie di Ulisse che peregrina ai margini della storia: non ha compiuto la discesa agli inferi del GULag, si è limitato a traversare la stagione dell’underground sovietico, di cui è stato un esponente di spicco, con le sue installazioni fatte in appartamenti privati e i suoi romanzi “malamente dattiloscritti”. Una lunga traversata “generazionale” lo ha lasciato “privo di ogni cosa sulla spiaggia di un’Urss destinata al declino e alla frantumazione”. E da lì Petrovic non si è mai mosso: a parte la macchina da scrivere, non ha salvato nulla del suo passato, abita case non sue dove riceve frugalmente qualche amico, preferibilmente in cucina. Ci sono esili che terminano senza l’apoteosi del regno ritrovato, Odissee che culminano e riprendono dal punto dell’approdo, dove il mendicante non si rivela un re in incognito ma scopre di essere soltanto un mendicante e uno straniero in patria. Ne sa qualcosa un altro odissaico personaggio di quel paese e di quei tempi – “nostri” nel senso che Makanin riprende da Lermontov: formati “dalle ceneri di tutta una generazione” – l’Alexandr Soljenitsin che, dopo esser diventato il Monumento del ritorno alla e della Russia senza il comunismo, è sprofondato in un assordante silenzio letterario. La sua utopia di una rinascita russa sotto il segno di una purificazione dell’ideologia slavo-ortodossa si è infranta contro la realtà di un paese dominato dalla convulsione del denaro e dallo strapotere delle mafie, una democratura post-moderna dove il pastiche ha rimpiazzato la tragedia. Segno che nelle odissee moderne, non si ritorna mai abbastanza, quasi mai al momento giusto, quasi sempre nel posto sbagliato.
Anche nell’ora dell’esilio, diceva Albert Camus, si può sognare. Forse è vero che solo nell’ora dell’esilio lo si può fare impunemente, prima che alle porte di casa i sogni si dissolvano nella luce cruda di un tempo che, a differenza di quello ciclico frequentato dai greci, non dà tregua alla nostalgia, perché non ammette ritorni su se stesso (se non come pensava Marx in forma di parodia). I Petrovic e i Soljenitsin hanno smesso di scrivere, cioè di praticare attivamente quel particolare tipo di nostalgia (i tedeschi la chiamano sehnsucht) che si applica al futuro oltre che al passato. L’ebreo rumeno Norman Manea si è ritirato nel “guscio di lumaca” di una lingua madre che lo rimette a contatto con la sua infanzia (la più estrema e perduta di tutte le patrie) ma non ha più fatto ritorno in un paese che considera ammalato di nazionalismo nonché perennemente tentato dalla rimozione delle sue “grottesche compatibilità” prima con il fascismo di Codreanu, poi con il regime di Ceausescu. Il croato Predrag Matvejevic si è riconciliato con Zagabria ma ha continuato a vivere “tra esilio e asilo”, diluendo nei suoi carteggi, nei suoi breviari, nelle sue mappe lo struggimento per la fine di un’identità plurale, quella jugoslava, di cui si sentiva malgrado tutto cittadino. Il boemo Milan Kundera, invece, ha cambiato lingua e paese, proprio nel momento in cui la sua piccola patria tornava nell’alveo dell’occidente da cui, per usare la definizione di un suo famoso saggio degli anni Ottanta, il potere sovietico l’aveva sequestrata. E ha spiegato questa conversione nell’esilio, questa odissea interrotta alle soglie del nostos, in una delle divertite e malinconiche commedie morali che dal 1989 va scrivendo nel francese di Voltaire e di Laclos. L’ignoranza è un libro sull’Odissea, ma scritto dalla parte (e nella lingua) dei Feaci, rivendicando la condizione dello straniero come unica possibilità di avvicinare quel che è lontano. Come unica possibilità di racconto: «Durante il viaggio di ritorno, dopo aver lasciato Calipso, aveva fatto naufragio nella terra dei Feaci, dove il re l’aveva accolto a corte. Lì non era che uno straniero un misterioso sconosciuto. A uno sconosciuto si chiede: ‘Chi sei? Da dove vieni? Racconta!’. E lui aveva raccontato. Ma a Itaca non era uno straniero, era uno dei loro, ed è per questo che a nessuno veniva in mente di dirgli:‘Racconta!’». Anche il Petrovic di Undergorund, l’uomo che ha smesso di scrivere ma che si porta sempre appresso il feticcio della scrittura, nelle cucine in cui si ritira con gli amici (il luogo in cui si parla, il più conviviale e il meno ufficiale di ogni casa: vieni in casa! si diceva nel nostro nord contadino per dire vieni in cucina) si estenua nei racconti, dilazionando nelle lunghe digressioni una nostalgia che non ha più luoghi in cui compiere il proprio movimento. Non ci sono luoghi, ma racconti in loro luogo: rintanato nella sua nicchia, l’eroe di Makanin istituisce un teatro di narrazione senza prestigio artistico, di pura intimità. Non ci sono re, soltanto mendicanti che vagano sballottati in lungo e in largo sulle rotte di un mondo senza confini, dove la velocità del tempo ingloba progressivamente la tregua dello spazio. Relitti della guerra o esuberi dell’economia spiaggiati sulle rive di un generalizzato occidente, difficilmente i nuovi Stranieri troveranno un punto di riposo. Per non dire di qualcuno disposto ad accoglierli e ad ascoltare le loro storie, immaginando che sotto le loro fattezze magagnate continui a nascondersi lo splendore di un ospite divino. L’Utopia spodestata di Mauro Martini è pubblicato da Einaudi. Del romanzo di Makanin esiste un’edizione francese Undergroundou Un hèros de notre temps pubblicata da Gallimard. I libri di Norman Manea sono editi in Italia da Il Saggiatore. Quelli di Predrag Matvejevic dalla casa editrice Garzanti. L’ignoranza di Milan Kundera è uscito da Adelphi nel 2001. Questo articolo è stato scritto in memoria, e in qualche modo al posto, del mio amico Mauro Martini, scomparso nel 2005, che assai meglio di me l’avrebbe scritto. |