Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 10 Del 10 - 3 - 2008 |
Aprire le porte dell’immaginazione |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
Occupazione. Nel senso di occupare spazi, case, posizioni, avamposti culturali. E anche nel senso di creare occupazione, posti di lavoro, ruoli sociali. Non un significato ambivalente, ma due accezioni che rimandano ad un solo significato, interconnesse in una strada verso la contemporaneità. Questo numero de La differenza è un manifesto. Il programma consiste nel proporre ai lettori la panoramica di una città-comunità (polis) diversa. Di una città estremamente più dinamica e sostenibile. Piena di forze economiche, di movimenti culturali e di partecipazione. Insomma di una città ideale. Eppure il compito di questo numero è dimostrare con precisione quanto tale ideale sia concreta ed affondi le proprie radici in esperienze consolidate sia in Europa - dove diventano elementi integrati nella progettazione sociale e urbana delle istituzioni – sia in Italia – dove, di contro, tali progettualità vengono spesso neutralizzate con ostinata applicazione. Se dunque in Germania, ad esempio, lo sviluppo dei sistemi di riuso delle proprietà immobiliari temporaneamente dismesse, riesce a diventare un vero e proprio circuito economico capace di soddisfare una fetta consistente di società civile, in Italia – un paese con una economia di consumo ridotta a brandelli – ci si concede il lusso di considerarsi fieramente anacronistici continuando ad insistere su soluzioni eterodirette da uno statalismo (esercitato anche dalle istituzioni terrioriali) sordomuto e colluso con ogni tipo di potere speculativo, che comunque al presente non riesce più a dare risposte. A Roma, in occasione dell’Epifania, i capannoni dell’ex Mira Lanza, che da anni attendono la rilocazione dell’Accademia Nazionale Silvio D’Amico – non in possesso delle necessarie risorse economiche per la ristrutturazione e il trasloco - venivano distrutti da un incendio sviluppatosi nella condizione di totale degrado in cui versavano. Ed è stata un’epifania a tutti gli effetti, perché negli ultimi anni molte sono state le proposte di riuso di quelle strutture da parte di soggetti culturali indipendenti, ma nessuna è mai stata presa in considerazione dall’autocelebrantesi amministrazione illuminata capitolina. Il risultato è stato platealmente evidente. Un’area di migliaia di metri quadrati posta in un quartiere ad altissimo tasso di sviluppo urbano se n’è andata in fumo. Si potrà ricostruire, certo, ma con un ulteriore e ben più gravoso esborso di economie pubbliche che, comunque, allo stato attuale non ci sono. E questo è solo uno dei molteplici paradossi presenti nella più vivace città italiana per ciò che riguarda la maturazione di esperienze urbane alternative. Chi si sia trovato a condurre trattative politiche legate alla sopravvivenza di esperienze socio-culturali trainanti per la città e di impatto determinante nello scenario nazionale, avrà fatto l’esperienza dell’assoluta mancanza di volontà da parte delle istituzioni a trattare tali questioni come problemi complessi. L’attitudine delle amministrazioni è quella di ridurre la necessità di emersione di realtà cultuali ed economiche all’interno di luoghi occupati (per via di una impossibilità oggettiva ad ottenere assegnazioni temporanee legali), come elementari problemi di carattere immobiliare. E quand’anche la trattativa volgesse a buon fine essa non arriverà mai ad essere presa in considerazione nella sua complessità di fenomeno sociale, ma semplicemente dovrà chinare la testa ad una logica di scambio immobiliare tra due differenti poteri, quello politico delle istituzioni e quello mediatico che talune esperienze possono essere riuscite a costruirsi. Il risultato è quello che una volta “sistemato il problema” questi embrioni di una nuova società restano per lo più abbandonati alle proprie forze, privi dell’unica cosa che gli permetterebbe di diventare a tutti gli effetti sistemi stabili e complementari nel quadro di una nuova economia territoriale, ossia il “riconoscimento” istituzionale non della propria “esistenza in vita”, ma dei modelli (imitabili) da essi prodotti. Ma questa in fondo è l’anima della politica italiana. La politica del favore che si deve fare, del do ut des, della conquista di bacini di “simpatia” elettorale. A Roma la legalizzazione di una occupazione culturale non è un risultato di carattere sociale, ma il passo ulteriore della perpetua spartizione della città fra i poteri. E capita che il gruppo direttivo di un centro di produzione artistica indipendente con decine di migliaia di frequentatori si trovi ad essere trattato come un “palazzinaro” a cui si concede questo o quell’immobile “di prestigio” per chiudere il discorso e restare tutti dalla stessa parte. Tutto questo è frutto esclusivo di una ignoranza radicale che si fa tara ereditaria, come negli Spettri di Ibsen. E anche gli incolpevoli, i figli di una generazione politica che più dell’attuale ha disposto di questo Paese come di cosa propria, sono attaccati dalla cecità verso nuove prospettive di sviluppo e proseguono in una sclerotizzata sindrome del potere da prima repubblica che oggi non ha più alcun rapporto con le nuove economie, di cui la casta francamente s’infischia. Non se ne infischia la società civile, però, che invece sembra assai sensibile ai cambiamenti del vento ed è pronta a mettere in direzione della corrente le proprie navicelle con largo anticipo rispetto ai mastodontici bastimenti arrugginiti delle istituzioni. A questa società attenta dedichiamo questo numero manifesto. Mettendo in chiaro sin da principio che la pratica dell’occupazione di cui qui facciamo apologia non è fine a se stessa, ma è mirata a stimolare la nascita di processi istituzionali necessari a garantire prospettive legali per molte aspirazioni sociali e che a volte occupare un luogo, aprire un portone, è qualcosa che si avvicina profondamente ad un’azione artistica, giacché libera le potenzialità di una materia e le immaginazioni di chi dovrà abitarla. |