Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 10 Del 10 - 3 - 2008 |
Prospettive per un nuovo dialogo istituzionale |
Un dialogo tra il direttore de “La differenza” e Vincenzo Vita |
Gian Maria Tosatti |
La storia cui si riferisce questo dialogo inizia qualche anno fa. Tre precisamente. Sul palcoscenico del Teatro Palladium, dove si svolgeva il convegno Teatri Invisibili, ultimo atto di un monitoraggio compiuto da Triangolo Scaleno Teatro sulle realtà teatrali “indipendenti” di Roma e provincia. Tra i relatori, in mezzo alle sedie vuote delle istituzioni invitate e perennemente assenti, c’era Vincenzo Vita, assessore alla cultura della Provincia di Roma, lui sì presente, magari solo per dovere istituzionale essendo stato il progetto finanziato appunto dal suo ufficio. Nella platea gremita c’era tutto il teatro contemporaneo della città che non aspettava altro che un qualsiasi rappresentante delle istituzioni da sbranare dopo anni e anni di colpevole latitanza. Vita, dunque, in quella occasione venne aspramente contestato, senza colpe oggettive, se non quella di appartenere ad una classe politica ormai infinitamente distante dalla realtà dei processi produttivi e culturali del proprio territorio. E’ da quel giorno che si calcola l’assessorato di Vincenzo Vita che in tale occasione fu sportivo, incassò il colpo senza alzarsi dalla sedia e allo spegnersi dei riflettori iniziò a cercare di capire il perché di un così evidente scollamento. I tre anni seguenti raccontano la storia di un avvicinamento progressivo e della ricerca di strumenti di interazione che hanno segnato profondamente la rinascita culturale capitolina attraverso interventi semplici, ma precisi, perché frutto di una approfondita conoscenza dei temi posti dai soggetti in campo e dei relativi problemi in una logica di concertazione sempre più avanzata, che in questi giorni, alla fine della legislatura si è voluta esportare anche alle altre due istituzioni territoriali, il Comune di Roma e la Regione Lazio, creando un tavolo interassessorile permanente per l’individuazione di grandi temi di programmazione culturale da sviluppare con la collaborazione degli operatori che giorno dopo giorno costruiscono il sistema cultura nel territorio. Una storia dunque iniziata tre anni fa e che oggi, all’indomani dello scioglimento della giunta provinciale si chiude temporaneamente, in attesa di chi ne raccoglierà l’eredità, nella speranza che possa proseguire il lavoro dal punto in cui è stato lasciato. E sono i punti centrali di questa eredità che ci interessa mettere in luce al fine di poter capire il senso delle mosse future. Vincenzo Vita: Se questa è la domanda, i filoni su cui abbiamo lavorato in questi anni sono essenzialmente tre. Il primo è stato la costruzione di un circuito di teatri che non c’era. Abbiamo individuato venti sale, le abbiamo ristrutturate e rese teatri a tutti gli effetti, dotandole di strutture tecniche che gli permettessero di ospitare da Goldoni al teatro sperimentale. In questa operazione abbiamo coinvolto molti comuni inseguendo un’idea della Provincia come distretto culturale, come area di sistema integrata e non come una semplice sommatoria di paesi e paesini. Il secondo punto è stato il nostro impegno a favore dell’audiovisivo e del cinema contribuendo assieme alla Regione e alle altre province – tranne Latina che è autonoma – a costituire la Film Commission. Anche qui l’obiettivo era dare più opportunità alla produzione locale che, nella nuova era, diventa globale. Il terzo grande tema riguarda quella che per me è stata una scoperta affascinante, cioè il teatro indipendente. Con un impegno triennale, abbiamo costruito una rete di gruppi di lavoro e di progetti appartenenti alla scena contemporanea. Un progetto che va dalla formazione, alla produzione, alla programmazione - con la rassegna Teatri di Vetro diventata stabile e che si svolgerà ormai quando si sarà insediata la nuova giunta. A questo abbiamo collegato una vasta attività collaterale che coinvolge strumenti di promozione on-line e ipotesi di raccordo con iniziative che si svolgono anche in altre parti d’Italia. Tosatti: Sono tre filoni che hanno previsto e prevedono un impegno estremamente vasto. Ma l’obiettivo qual è? Vita: L’obiettivo è molto semplice. E’ quello di attenerci all’indirizzo e ai criteri che ci arrivano dall’Unesco sui temi della diversità culturale e dei beni immateriali, che sono tutt’altro che immateriali. La mia battaglia storica, essendomi occupato da sempre di comunicazione e informazione, è stata quella di far intendere alla classe politica che la cultura non è un aspetto marginale o riempitivo nella vita di un paese – come di fatto ancora molti tendono a concepire – ma è uno degli aspetti strutturali essenziali. Anche nelle parti più evolute del ceto politico c’è ancora una mentalità molto antica che vede l’attività culturale come una sorta di abbellimento, di appendice di qualità, mentre invece essa è un pezzo fondamentale e inscindibile dello status della società ed è impossibile supporre il mondo presente senza questo piano che va da internet alle espressioni artistiche. Tosatti: Vede Vita, questo che lei dice fa pensare immediatamente al fatto che in questi anni si è ripetuto sistematicamente un profondo fraintendimento su questo tema. Si è scambiata la “cultura” con la “celebrazione della cultura”. Ossia si è scambiato l’evento spettacolare fine a sé stesso con qualcosa che potesse dare alle persone gli strumenti per fronteggiare le emergenze quotidiane. La centralità della cultura non ha niente a che fare con gli spettacoli, i concerti o i grandi festival. La cultura non è l’arte, ma è l’alveo da coltivare nel quale maturano le espressioni, anche artistiche, ma prima di tutto è ciò che ci fornisce gli strumenti per poter interpretare il presente e dare risposta alle questioni che ci vengono messe di fronte. Vita: E per l’appunto, il concetto di cultura nella postmodernità o come direbbe Marramao nell’ipermodernità è una cosa complessa. Con Wikipedia, con l’open-source, è sparito il concetto antico della conoscenza legato alle grandi biblioteche. Oggi c’è una cultura diffusa per ambiti intersecati in cui i grandi poli del sapere sono liquefatti in una sorta di immersione generale in cui i flussi di informazioni si muovono molto velocemente. In questa circostanza non c’è più una differenza identificabile e la cultura è politica. Penso che ciò sia la grande novità di questa stagione. Ma bisogna essere in grado di comprenderla per darle respiro. Nel mio lavoro di questi anni ho cercato di dare dei criteri di lettura. Il primo è stato quello di mettere la Provincia nelle condizioni di poter rispondere alla domanda diffusa di cultura da parte della comunità e col teatro è andata proprio così. Tosatti: E’ da qui che è nata l’ipotesi di coinvolgere i suoi colleghi assessori in un tavolo permanente che potesse rendere organico un percorso di rinnovamento nel teatro di questo territorio non più legato all’impegno del singolo, ma garantito dalla pluralità delle istituzioni? Vita: Lo spirito di questa proposta deriva da un certo tipo di progettazione che innegabilmente fino ad ora è mancata. L’obiettivo è inserire un rapporto friendly fra l’istituzione e l’attività culturale del territorio. Le istituzioni, infatti, non sono luoghi riposti e lontani verso cui mettersi in cammino per andare a chiedere qualcosa. Sono le istituzioni che devono muoversi, incontrare, conoscere quello che si sviluppa sui propri territori. Per questo motivo credevo fosse necessario costituire una delegazione permanente di artisti e di operatori che, in una serie di appuntamenti fissati durante l’anno, si incontrasse con i tre assessori per discutere - su alcuni grandi temi - una programmazione comune. Poi al di fuori di quello ognuno è libero di proseguire con le proprie linee peculiari. Gli artisti di fare la loro attività magari criticando anche aspramente le istituzioni e le istituzioni di fare i loro bandi con i criteri di priorità stabiliti. Però deve restare la volontà generale e concreta di coordinare le diverse intelligenze in una intelligenza collettiva che renda l’istituzione parte di una comunità più vasta. Tosatti: Ma non è proprio questo il mandato specifico delle istituzioni territoriali? Vita: Certamente, però bisogna creare o aggiornare gli strumenti che possano rendere perseguibili anche questi obiettivi elementari. Un tavolo come quello di cui parliamo mette di volta in volta una serie di istanze all’evidenza delle istituzioni in una condizione che non ammette distrazioni. Nel primo appuntamento, il 12 febbraio, è stato sollevato il tema della necessità di spazi dati alla produzione culturale. E credo che in effetti questo sia un tema centrale, perché nell’arte la quantità è strettamente legata alla qualità. Ed è necessario permettere a molte realtà di lavorare per poter poi individuare quelle che esprimono eccellenza. Tosatti: E le risposte quali sono state? Voi della Provincia di Roma avete lanciato, mi pare, una convenzione con le scuole superiori, affinché mettessero gli spazi inutilizzati durante le ore di chiusura a disposizione di compagnie teatrali. E poi mi pare che si sia parlato vagamente di individuare immobili comunali da trasformare in spazi-prova. Vita: Sì, ma in questo tema si inserisce un problema centrale e molto complesso secondo me, ossia quello della riforma del teatro pubblico. Alla fine del mio assessorato ho cercato di sollevare la questione e a dire il vero mi sono scontrato con alcune forti contrarietà. La mia idea era quella che la sfera pubblica non coincidesse più con un edificio teatrale, ossia il teatro pubblico non può essere più solo il Teatro di Roma, con Argentina, India e le sue sale collegate. Il “teatro pubblico” non può essere legato ai luoghi, ma ad un “intervento pubblico”, ossia ad un idea di welfare. E spero che questo messaggio passi, perché è legato all’idea di cultura come investimento e non solo come spesa per il mantenimento di realtà esistenti. Bisogna investire in attività. Ma questo concerne anche una idea di pubblico nuova. Tosatti: Qui lei apre una questione estremamente importante, ossia l’impatto che sul mondo culturale ha avuto il rinnovamento delle strutture indipendenti che superata la fase dei centri sociali di prima generazione hanno iniziato ad operare con metodo e professionalità non inferiori alle strutture istituzionali. Questo ha portato alla nascita, in questa città, di nuovi centri di grande qualità che si sono sviluppati fino ad ottenere per Roma un primato nazionale, superando la vivacità di quelle aree in cui negli anni Novanta si faceva il teatro contemporaneo, ossia l’Emilia Romagna e la Toscana. Io ricordo, all’inizio di questo decennio il ruolo di strutture – come Armunia a Castiglioncello – che, stando in altri territori, adottavano il teatro romano e gli permettevano di sopravvivere grazie ad un sostegno appassionato. Erano anni in cui Roma era come l’Impero Ottomano tenuto in vita dalle potenze occidentali. Oggi la nascita di centri di ricerca indipendenti – che sono andati a colmare il gap dei teatri istituzionali o paraistituzionali dall’impatto sul territorio pressoché nullo negli ultimi dieci anni (ad eccezione del caso Martone) – e grazie anche alla creazione di progetti di interazione con le istituzioni come è il caso di ZTL_pro, le strutture romane sono messe in condizione di poter produrre quelle compagnie di respiro europeo che dovevano cercare la produzione altrove. Se poi mi capita di leggere quello che realtà importanti del mondo culturale italiano, come il tavolo nazionale dei coordinamenti della danza, chiedono per i loro territori trovo l’identikit di ciò che a Roma già esiste, ossia strutture agili e leggere ma di grande qualità progettuale e con un pubblico vasto e trasversale assai più vivace del pubblico di consumo dei vecchi teatri che si trova in mano un biglietto a tempo – entra alle nove e alle undici si chiudono i battenti. Tuttavia c’è un tema correlato estremamente interessante. Questi centri, infatti, vengono da percorsi come quelli dell’occupazione. Alcuni sono stati sanati, altri ancora no. A lei che ha diretto un assessorato che per primo ha progettato una ipotesi prototipo di fondi strutturali per implementare le possibilità produttive di queste realtà volevo domandare qual è lo sguardo di una istituzione sulle realtà provenienti da percorsi di questo genere? Vita: Quello a cui lei si riferisce è un fenomeno di grandissimo interesse. Per me è stata una scoperta avvenuta nel corso del mandato. Non ho problemi a dire che all’inizio anche io ero vittima di un pre-concetto, ossia che in questi luoghi si facessero attività non all’altezza del grande circuito. Attribuivo a questi spazi un senso politico generale e non un contenuto culturale così significativo di cui poi mi sono reso conto dal vivo. Da questi luoghi arrivano delle vere e proprie interferenze positive nella cultura di massa. E’ un mondo molto più ricco di quanto non s’immagini. Tosatti: Il suo iniziale disappunto stava tutto nella differenza fra i cosiddetti centri sociali di prima e di seconda generazione… Vita: Per quello che ho capito e imparato mi pare che si sia già arrivati ad una terza generazione. Tali percorsi infatti hanno un inizio di carattere corrosivo e polemico, poi c’è una seconda stagione in cui avviene la costruizione di identità diffuse e poi si arriva alla terza generazione, quella odierna. Il centro sociale allora diventa luogo di cultura che mette ordine nel mare magnum delle proposte culturali andando ad intercettare delle espressioni anche un po’ casuali – ma in cui c’è della genialità – per fornirgli una cornice in cui crescere, affinarsi e diventare grande cultura. Questi luoghi ad oggi inseriscono qualità nella cultura di massa. Il passo successivo – quello di un’ipotetica quarta generazione – è che questi luoghi diventino “cultura di massa” contribuendo a migliorare la media della grande offerta. Tosatti: La contaminazione tra i due sistemi mi pare sia già iniziata. La presenza di queste strutture è divenuta, infatti, una risorsa economica anche per chi opera nel sistema main stream della cultura, da Giorgio Barberio Corsetti che è consulente artistico dell’Auditorium e che ha in diverse occasioni sviluppato i suoi lavori in luoghi come l’Angelo Mai o il Rialtosantambrogio, fino a Daniele Timpano, il cui Dux in scatola è diventato uno degli spettacoli più richiesti dai teatri italiani. Si è verificato qualcosa di estremamente interessante, perché le risorse messe in campo dalle strutture indipendenti, abbattendo una parte sostanziale dei costi di produzione ha agito sul sistema dell’economia dello spettacolo come gli incentivi per le automobili dando una spinta significativa alla produzione. E’ in questo quadro che si è andato ad inserire il vostro intervento. Spesso, infatti, le risorse destinate al teatro finiscono a finanziare l’hardware anche quando questo si dimostri superato. Nel caso dei progetti della Provincia c’è stata invece una volontà di investire sul software spostando i finanziamenti sugli sviluppatori, sui progettisti, sui centri di ricerca. I fondi messi a disposizione però – come per esempio per il progetto ZTL_pro – avevano il vincolo di venir utilizzati per le produzioni e non per il mantenimento di questi altri hardware leggeri. L’intenzione si sposava bene al contesto, perché tali strutture avevano già una indipendenza economica tale che collocava questa operazione in un’ottica di collaborazione fra due realtà paritarie mirata allo sviluppo di progetti in cui ognuno investiva qualcosa; le strutture investivano in risorse tecniche, e le istituzioni mettevano la liquidità necessaria a completare il processo. In questo modo si crea un clima di sostanziale autonomia economica che è forse una delle condizioni migliori che possano verificarsi in un sistema produttivo misto che vede la partecipazione istituzionale. Vita: E questo appunto ribalta la vecchia logica di cultura-spesa in una logica di cultura-investimento, che ha come passo successivo la ricerca di capitali privati – che può essere facilitata dalle istituzioni – per costruire una dinamica di sponsorship e mecenatismo moderno che vada oltre il “contributo casuale una tantum” messo su un certo evento e si curi di sostenere interi processi. Tosatti: Anche perché gli strumenti legislativi per dare vita a questo percorso già ci sono in forma di sistemi di defiscalizzazione importanti e in grado di poter spostare l’interesse del privato dalla semplice occasione pubblicitaria “one shot” alla possibilità di finanziare a costo zero processi più duraturi nel tempo e capaci dunque di poter avere anche un più diffuso e continuativo ritorno d’immagine. Vita: Questi investimenti dovrebbero avere l’intelligenza di legarsi a fenomeni in stato di emersione che si accingono ad avere una forte evidenza. La danza, ad esempio, sta riconquistando un ruolo centrale nell’arte attraverso una nuova giovinezza. Lo stesso vale per l’arte contemporanea che negli ultimi mesi ha portato molti investimenti sulla città di Roma e anche molti riflettori. Innestarsi in questo processo già vitale per conto suo potrebbe portare a non immaginare sempre la cultura come un buco nero economico, ma come qualcosa che ha anche la sua economia politica. L’importante è distinguere le gerarchie. Non mettere il mercato in cima alla piramide, come è stato nei decenni scorsi, ma metterlo qualche gradino sotto: il mercato arriva se si allarga la produzione. E in questo modo arriva anche la qualità in una logica che dev’essere anzitutto culturale. In genere chi parte rovesciando quest’ordine di addendi fa un errore anche sotto il profilo economico perché quando si pensa solo al mercato si pensa solo a quello più ovvio, che in realtà è un mercato già esaurito. Tosatti: E qui mi pare che abbiamo chiuso il nostro anello di ragionamento. Solo un’ultima domanda che in questi giorni di campagna elettorale mi sembra d’obbligo, giacché la storia che abbiamo raccontato attiene al modo in cui una Provincia è stata in grado di relazionarsi in un territorio complesso come quello romano, favorendo e in parte forse determinando, lo sviluppo di processi che altrove hanno trovato il ricorrente disinteresse istituzionale. Quello che volevo domandarle per chiudere è allora se queste Province vadano abolite o forse è meglio di no? Vita: Ma vede, il motivo per cui si parla di abolizione delle Province è legato al risparmio giustissimo nei costi della politica. Per cui credo che ciò che non vuol essere tagliato debba motivare in modo convincente la propria esistenza. E dunque penso che la Provincia debba fare un salto di qualità, che debba essere rivista e corretta, per continuare ad essere necessaria. Lei deve pensare che l’Italia è un paese fatto di comuni, a volte molto piccoli e impossibilitati da soli a compiere una attività di alto livello com’è giusto che sia. La Provincia, in quest’ottica, potrebbe avere un ruolo di coordinamento fra reti di Comuni favorendone la creazione e agevolandone le progettualità. I tre livelli (Provincia, Regione e Comune) però non devono sovrapporsi. Neppure in territori che comprendono grandi centri urbani, come Roma o Milano, dove la Provincia dovrebbe contribuire a creare aree metropolitane che siano città diffuse. In questo senso, durante i miei anni all’assessorato, assieme a Canio Loguercio e allo staff di collaboratori che ho avuto abbiamo cercato di ribaltare il concetto di decentramento in cui c’è un centro privilegiato e una periferia a cui mandare ogni tanto qualcosa. A questa concezione abbiamo preferito una idea di policentrismo integrato in una grande area metropolitana in cui la periferia non è più qualcosa che sta al margine, ma diventa parte di un unico corpo, ricco di aree ulteriori in cui sviluppare laboratori ed esperimenti di qualità. A questa idea poi è necessario legare un impegno di risorse basato sui criteri che abbiamo indagato in questa discussione. E l’ultimo atto prima dello scioglimento della giunta è stato da parte del mio assessorato proprio quello di mettere a bando – grazie alla riforma della legge 32 - un milione e quattrocentomila euro per iniziative legate alla cultura indipendente sul territorio. |