La locandina di
La locandina di "Drammi di Principesse" di Santoro e Merloni
Elfriede Jelinek
Elfriede Jelinek

Anno 1 Numero 11 Del 17 - 3 - 2008
Principesse in pezzi
L’impietosa immagine nella realtà negli atti unici della Jelinek letti da Santoro e Merloni

Mariateresa Surianello
 
Spettacolo stratificato, denso, complesso che rifiuta la forma dialogica e procede per doppia struttura monologante. Due figure contrapposte, la fanciulla e la morte, intrecciano continuamente i loro “destini” in questo Drammi di principesse che Luisa Merloni e Federica Santoro hanno portato in scena al Rialtosantambrogio di Roma (che per tutto l’inverno ne ha ospitato anche le prove), per sole tre serate. Svelando – è proprio il caso di dirlo, vista la ristretta conoscenza italiana - l’universo spigoloso e tagliente di Elfriede Jelinek, scrittrice e drammaturga austriaca, scomoda in “patria” sua, come nel resto dell’Occidente perbenista e ipocrita, che non ha potuto tuttavia impedire che le si conferisse, nel 2004, il Nobel per la Letteratura. Autrice rivoluzionaria (classe 1946), creatrice di forme espressive estreme che si fanno portatrici di una critica sociale dura e lucidissima.

La prima apparizione di questo Drammi di principesse era avvenuta in forma di studio alle semifinali del Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti 2007, lo scorso novembre al Castello Pasquini di Castiglioncello. La traduzione usata dal duo Merloni-Santoro era già quella di Werner Waas (regista da lunghi anni acquisito alla scena romana con la sua compagnia Quellicherestano), artefice, tra l’altro, di una versione radiofonica di alcuni Prinzessendramen (nel 2005, per Radio 3 Rai) e dell’allestimento de L’addio (nel 2001, guarda caso proprio al Rialto, interprete Fabrizio Parenti), orribile e misogino monologo scagliato dall’autrice contro la destra fascista e xenofoba di Jörg Haider. Oltre queste occasioni, Jelinek è sconosciuta ai palcoscenici italiani (Ubulibri pubblica Sport. Una pièce con tre atti unici, nel 2005). A Luisa Merloni e Federica Santoro - quest’ultima nella doppia veste di attrice e regista – va dunque il plauso per la coraggiosa iniziativa di provarsi con una scrittura estrema e difficilissima, in una messa in scena che rifiuta la rappresentazione – come la stessa autrice paradossalmente prescrive nella didascalia iniziale.

Il gioco scenico è completamente scoperto. Via quinte e fondali neri, la piccola sala teatrale del Rialto mostra agli spettatori il suo biancore parietale, con le luci di Gianni Staropoli che ne esaltano la nudità. In questo spazio aperto il linguaggio è protagonista assoluto. La morte e la fanciulla I e III (i primi due atti unici composti finora da Jelinek sulle principesse cui hanno lavorato Santoro e Merloni) avvia il suo flusso incessante di parole-significanti, accompagnato da azioni continue che ne chiariscono o ribaltano il significato o ne sottolineano l’ambiguità semantica, fornendo l’accesso a una lettura seconda. E’ la stessa Biancaneve (Luisa Merloni) nel buio del bosco a dichiararsi – nell’incipit del suo primo monologo – una «ricercatrice di verità, anche linguistica», povera fanciulla che all’apparenza si troverebbe in quel luogo oscuro in cerca dei suoi sette nani e invece incontra il Cacciatore (Federica Santoro), col suo cappello piumato. Con supponenza prevaricatrice, il Cacciatore spacca in terra una lampadina, spargendo frammenti di vetro su un territorio già periglioso e rendendolo ancora più buio. Parte così lo scontro tra femminile e maschile (Tod, morte, in tedesco è maschile), uno dei temi ricorrenti nelle pagine di Elfriede Jelinek, convinta che le attuali condizioni sociali determinino la subalternità della donna rispetto all’uomo. Motivi che l’autrice viennese lascia emergere attraverso una raffinata composizione - ispirata anche dalla sua formazione musicale - spesso basata sulle sonorità linguistiche (da qui la difficoltà di recuperarla in altre lingue), sulle libere associazioni, come pure sui giochi di parole, spinti fino a sciocchi calembour. Pesca brandelli di trivialità televisive e pubblicitarie, che monta con citazioni alte di classici tedeschi (Holderlin, Kleist..., come nella pièce Nuvole.casa), per svelare i meccanismi del potere e compiere una lotta politica sul fronte delle arti e per la difesa delle libertà. Comunista, Jelinek scava, con ironia e sarcasmo, nelle macerie della cultura tedesca, sputa sulla menzogna storica del piccolo e indifeso Paese invaso da Hitler, denuncia i rigurgiti neo-nazisti, fino a vietare la messa in scena delle sue opere nell’Austria di Haider. E, dopo il Nobel, spiazzando l’industria editoriale, si permettere il lusso di pubblicare solo su internet (www.elfriedejelinek.com) il suo ultimo romanzo, Neid (Invidia).

Merloni e Santoro si fanno portatrici di questo enorme fardello culturale con particolare convinzione e con bravura d’attrici, offrendosi generose e con grande auto-ironia, specie nelle metafore sessuali più esplicite. Nella seconda parte, si scambiano il ruolo maschio-femmina, sarà così Rosamunda-Federica a capitolare nella relazione con Fulvio-Luisa, due opposti, già nell’abito: giacca nera e pantaloni bianchi, lei, giacca bianca e pantaloni neri, lui. Si aggirano per un’ora tra cocci di vetro tagliente che Rosamunda con enfasi sado-maso sparge sul pavimento e poi Fulvio si diverte a calpestare, mentre il parlare monologico non si arresta, in questo lungo giorno illuminato da freddi tubi di neon poggiati in terra. Qui le luci di Staropoli esaltano con macchie rosse alcuni elementi strutturali della sala, come ad annullare ancora una volta l’artificio scenico, e a richiamare anche quei piccoli segni rossi come sangue che Santoro si disegna sulla bocca.

Alla fine torna il silenzio. La tragedia si era consumata, prima dell’inizio. Le fanciulle forse erano già morte. Triturate e riassemblate mille volte nel trash della cultura di massa e nei ritorni del mito. Come accadeva nella trasposizione cinematografica di Michael Haneke de La pianista (presentato a Cannes nel 2001, ma il romanzo di Jelinek è del 1983 - molto interessante la coincidenza con l’uscita in questo stesso anno de Il soccombente di Thomas Bernhard), la fine arriva senza conclusione, né catarsi. Tutto resta ancora da fare. In un’ora e quaranta minuti, Drammi di principesse ha “solo” sollevato i pesanti drappeggi delle apparenze che nascondono la verità.