Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 11 Del 17 - 3 - 2008 |
Un paesaggio e una storia non raccontata |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
Un paesaggio fatto di scheletri mobiliari, un’accumulazione di segni stilizzati di una civiltà riassumibile in forme elementari. Tavoli più che altro. Mobili, arredi, buttati lì a riempire il vuoto. Portati da chissà dove. Frammenti messi uno sull’altro in equilibri imprevisti. Stanze piene di questi oggetti, stanze piene da traboccare. Negli ultimi quindici anni. Il lavoro di Nahum Tevet ha raggiunto un livello estremamente maturo di sintesi fra forma e sostanza, tra spazialità e concetto. Nel suo caso quello che c’è è ciò per cui sta. Accumulazione sta per accumulazione e città sta per città. La sua opera è un’analogia per nulla mascherata, radicata nell’origine della propria pratica artistica. L’opera è mimetica rispetto al suo contesto e allo stesso tempo è semplificata fino ad uno stato primitivo in cui sono scoperti tutti i livelli della realtà. Nelle sale del Macro di Roma, dove fino a metà maggio è organizzata la sua prima personale in un museo italiano, è proprio questa l’esperienza che si fa delle sue due grandi installazioni capaci di raccontare molto più di quanto si vede. Il pieno d’oggetti sembra il particolare di un’opera più grande, destinata ad espandersi sempre di più in tutte le sue contraddizioni di esili gambe e di profili sul punto di collassare. Quello che Tevet racconta è il progetto di una società di cui lui stesso fa parte. Vissuto per gran parte della sua vita in un kibbutz, l’avanzata cui accenna è quella di una civiltà venuta coi bagagli da molti altrove, a riempire uno spazio vuoto, desertico, con piani urbani dalle linee rassicuranti, dalle curve morbide, elementari. Ed è appunto da queste linee semplici che egli procede per costruire l’immagine di una società dalle molte dimensioni, prepotente nel disegno della sua skyline e vulnerabile nei suoi interni spalancati, nelle sue pareti attraversabili, immaginarie, nei suoi rifugi infantili sotto le gambe di un tavolino. Tavoli, e mobili accennati, frammenti di urbanità, frammenti di interni che moltiplicati e sovrapposti stanno per il tutto.
Ma l’opera-frammento, simbolo del post-moderno, nell’arte come nella letteratura, non si presenta semplicemente come la parte per il tutto, quanto più precisamente come una parte che chiede, che pretende il tutto, obbligando il passivo assorbimento del visitatore, dello spettatore o del lettore ad una contrazione generativa che fa di un punto di frizione l’origine di una spirale rovesciata che abbraccia il profondo sé. Il frammento, dunque, è il passepartout sintattico della civiltà contemporanea. Che a livello di comunicazione s’intende per abbreviazioni, mentre nell’arte e nella vita procede per pezzi aguzzi, componenti parziali e verticali. Ed è appunto la verticalità a far la differenza, ed il frammento è sempre verticale perché frastagliato e conficcato nell’occhio del lettore, nella sua pelle. Attorno ad esso, attorno alla lama, c’è l’emorragia del resto, che si espande orizzontalmente andando a definire il contesto infinito dei mondi possibili che scorrono attorno a quella freccia dritta, infilatasi in un corpo casuale (il lettore, lo spettatore…) a metà della sua traiettoria. Su questo riflette in modo esemplare anche Muta Imago, col suo ultimo spettacolo – presentato in prima assoluta la scorsa settimana al teatro Palladium di Roma e prodotto nell’ambito del progetto ZTL_pro. Di Lev (il nome del personaggio che dà il titolo all’opera) intuiamo il trauma cerebrale che ha portato il suo pensiero a non procedere più linearmente. Esso, tuttavia, non ci è raccontato. Ne deduciamo l’origine dagli echi di guerra che si sentono all’inizio e sono subito smentiti da altri segni che rimandano ad un contesto di guerra fredda più che di vero e proprio conflitto. Dunque non è chiaro quale sia la forza cui l’intelletto del protagonista, umano e ordinario fino al paradosso nella sua esposizione d’impotenza di fronte al pubblico, si sia piegato fino a spezzarsi. Una voce lo interroga, lo sottopone a domande elementari sulle strutture linguistiche di base che danno vita ai concetti fondanti della società. Lev non risponde mai direttamente. Nel luogo privilegiato in cui ci ha calato la compagnia romana, ossia nella testa stessa del suo personaggio-cavia, vediamo come quelle domande prendano forma e ricompaiano frante, spezzate, taglienti nel perimetro senza scampo della percezione, scivolando sulle tre superfici di plexiglass sospese in aria come lame di ghigliottina, in forma di immagini, di ombre, evocazioni correlate. Ogni domanda, ogni sollecitazione produce una lacerazione da cui si diffonde lo spettro di un ricordo passato, o di una fantasia presente. E’ allora un astronauta Lev? Che cosa vogliono dire tutte quelle informazioni sui voli spaziali russi, sul satellite Sputnik o sulla salute della cagnetta Laika? E’ quel che resta di un astronauta o quel che resta di chi voleva esserlo? Sono ricordi quelli di Lev o sono percezioni attuali? Il sociologo Charles Wright-Mills definiva negli anni ’50 – quelli appunto in cui deve essersi svolto il nodo della vicenda di Lev - la società contemporanea come una entità invulnerabile alla forza dell’ingegno umano e alla sua volontà di operarvi cambiamenti. L’impotenza del personaggio proposto dai Muta Imago allora potrebbe non essere necessariamente determinata da un trauma fisico. Stando nella testa del protagonista questo lo spettatore non può saperlo, ma la serie di domande cui viene sottoposto Lev diventano man mano sempre più quotidiane, elementari, domande che esprimono concetti sociali attraverso cui viene chiesta una continua verifica al soggetto esaminato. Non sappiamo nemmeno se le domande siano esattamente quelle che sentiamo o se la voce udibile non sia che l’eco verticale, scarnificato, di situazioni più complesse, di situazioni quotidiane che chiedono ogni volta di essere identificate secondo un codice, una convenzione che ne possa generarne la soluzione. Lev, in piedi, convulso e forsennato come Woyzeck, è esposto a domande molto simili a quelle che assillano il soldato buchneriano, domande semplici, che tuttavia si presentano come codici del tutto differenti alla sua linea di pensiero. Ed è da questo scontro continuo di traiettorie fra umano e sociale, fra naturale e strutturale, che si generano i colpi che mandano in frantumi il pensiero del protagonista dell’opera di Georg Büchner, pietra miliare dell’opera-frammento, e non è difficile arrivare a pensare che nel secondo dopoguerra, quando una società si andava costruendo da capo e in modo del tutto artificiale - poco importa se nell’occidente consumistico o nella pseudo-socialista unione sovietica – la schiena di molti si sia spezzata e frammentata sotto i colpi della parola “madre”, “figlio”, “frigorifero”, “satellite artificiale”. Che significato aveva questa società per Lev, o per quelli che erano sopravvissuti ad un altro mondo? E’ una riabilitazione quella cui assistiamo durante lo spettacolo o una “rieducazione”? Muta Imago non dice nulla, si limita ad esporre il dentro così com’è, come una catena di frammenti che possono lasciar intendere molte cose e soprattutto lasciano lo spettatore libero di raccontarsi la storia che vuole, la storia in cui ognuno può specchiare le proprie paure proiettandole su quelle acuminate lame di plexiglass che non smettono di minacciare il protagonista. Un risultato di grande maturità drammaturgia dovuto ad una scelta di senso fortemente sostenuta, quella di lavorare per correlativo oggettivo, ossia attraverso l’unico linguaggio capace di presentare i codici non nella loro abbagliante evidenza, ma sulla base dei loro effetti, facendo pulizia dei significati contraddittori - nella cui trappola lo spettatore sarebbe certamente finito - e lasciando solo l’esposizione dei collassi cui la macchina umana va incontro. |