Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 12 Del 25 - 3 - 2008 |
Iperdanza |
Considerazioni a partire da "Tutto di prima" di Caterina Inesi |
Attilio Scarpellini |
«Danzare non è male»
Murakami Haruki Una congerie di linguaggi, una foresta di segni e di indizi, occupa la scena di Tutto di prima, lo spettacolo che Caterina Inesi ha liberamente tratto dal racconto di Murakami Haruki Tutti i figli di Dio danzano. Ci sono, bianchi sul nero, i disegni che il protagonista, Francesco Villano traccia, con mano incredibilmente abile, sul palcoscenico all’inizio dello spettacolo per identificare i personaggi principali della storia. Ci sono le riprese video che dilatano la sua immagine in diretta o la differiscono negli inserti filmati da Francesca Neri Macchiaverna, rendendo contemporaneo ciò che invece è successivo e immergendo l’’intera vicenda nell’eterno presente di una visività frammentata ed epifanica. C’è una parola viva, detta – che racconta; ce n’è una registrata e fantasmatica – che ricorda, rompendo la sobria economia dei dialoghi di Murakami e scandendoli di nuovo sul piano sfalsato di una solitudine che moltiplica se stessa, segno per segno, allucinazione per allucinazione, in una impossibile risalita all’Altro (per l’esattezza una Telemachia: Yoshia va cercando in ogni cosa il padre) che culmina precipitando in Sé, nel luogo e nel momento di un’estasi inaspettata. C’è – e sempre più spesso nel teatro contemporaneo – una Letteratura che si comprime e si espande nella discontinuità della narrazione scenica, inabissandosi nell’immagine e riemergendo nella voce con una sonorità fulgida di materia ma anche trionfalmente letterale (nitida e sentenziosa, come la voce di Dio, diceva Borges, quando penetra la confusione dei sogni). Ma soprattutto, a tradurre questa dinamica di sconfinamenti, c’è l’afasia di un movimento coreografico che nasce e muore per accenni, spasmodico e frustrante quanto può esserlo il sogno di saper giocare a pallone (calciando “tutto di prima”, versione italianissima dell’ossessione di Yoshia per il baseball) rispetto all’effettiva capacità di farlo. Frustrante come la favola consolatoria che fa del protagonista un cristico e superdotato figlio del cosmo, del mondo, di Dio – Yoshia il buono – per sedare la sua insicurezza di figlio che non ha mai conosciuto il padre: “tutto di prima”, dunque, anche in questo senso di antecedenza squisitamente biologica ed esistenziale. Ovunque un desiderio plastico si oppone a una realtà prosaica: il sogno sale, la vita scende e dove la danza si interrompe, il soliloquio riprende dal suo infarto. Così quella che nella poetica di “Immobile Paziente” è una negazione – l’esodo dalla e della danza – si rovescia nella più paradossale delle affermazioni perché, come il lapsus in Freud, tradisce l’inquietudine del desiderio. Che un racconto sull’identità quale è Tutti i figli di Dio danzano resti sospeso sull’ambiguità dei codici che lo mettono in scena, in una specie di zona franca tra il teatro (da cui proviene Villano) e la danza (da cui proviene la Inesi), è solo l’aspetto più demoniaco dello spettacolo. Mettendo in mora l’autonomia di rappresentazione di quei codici, Tutto di prima vuole continuare a raccontare nelle pieghe del loro esaurimento. E finché la regista coreografa resta seduta in un angolo del palcoscenico a sorseggiare il the e a muovere l’obiettivo della videocamera, il partito preso della sua assenza elegantemente biancovestita (cosa c’è, in fondo, di più notevole, di più demiurgico, e di più sottilmente luttuoso data l’ambientazione giapponese del racconto?) dispiega tutto il suo fascino discreto, ma anche i limiti più flagranti di un’estetica che sposa la sottrazione all’eccesso. Lungi dal fondersi o dal ricostituire un equilibrio, i diversi linguaggi mobilitati in Tutto di prima si smarcano e si distraggono a vicenda: un dialogo tra insoddisfazioni riproduce quel senso di acuta insufficienza che spinge Yoshio sulle rotte incerte della ferrovia urbana di Tokyo per inseguire un uomo con l’orecchio mozzato che potrebbe essere il padre o solo una banale allucinazione prodotta dall’ angoscioso desiderio di incontrarlo. Persino l’immagine topografica che compare di tanto in tanto sullo schermo in fondo al palco, più che indicare un riferimento, sembra accrescere ironicamente lo smarrimento: fitta di caratteri per noi indecifrabili, la pianta della metropolitana di Tokyo ricorda la scheda di un transistor o il disegno di un microchip - voi siete qui, pura traiettoria, ma il destino del vostro movimento, per non dire del motivo che portate oscuramente in voi, vi sono perfettamente ignoti… Finalmente, in una sorta di trasalimento, sarà proprio il motivo, cioè la danza, a prendere il sopravvento. Ed ecco Caterina Inesi che si alza dalla sua sedia, azzera i suoi monitor, e va sul fondo della scena, dove comincia a piroettare lentamente lungo lo schermo, come se nella morbidezza del suo corpo volesse riavvolgere il nastro del racconto. Per poi danzare gli ultimi minuti di spettacolo nell’ombra del protagonista, trasformando la rivelazione singolare del racconto – dove la danza letteralmente insorge dal corpo della notte - nell’irruzione di un’alterità che fino a quel momento la messa in scena aveva sapientemente trattenuto. Se non è un’apoteosi, è un passo a due. Trasale, tradisce, il lapsus della non-danza: quasi finisce col confessare che soltanto nel codice si possa ritrovare un po’ di libertà. Ma il codice va reinventato dallo stesso movimento che ne ha messo fuori gioco il sapere - va reinventato attraverso il desiderio. C’è un momento, diceva Roland Barthes, in cui bisogna disporsi a disimparare. Uscendo dalla danza, Tutto di prima va verso la danza, negandola la rende immemoriale: essa non è né prima né dopo, è sempre oppure non è mai. Come in Murakami, è il silenzio da cui scaturisce: l’iperdanza che agita la notte di ogni corpo. In libreria: I romanzi e i racconti di Murakami Haruki sono pubblicati in Italia dall’editore Einaudi |