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Un'immagine da "Lapsus" di Maria Donata D'Urso
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Un'immagine da "Hey dude" di Francesco Scavetta

Anno 1 Numero 12 Del 25 - 3 - 2008
Emigranti o esiliati?
Su tre dei migliori coreografi italiani residenti all’estero il focus del progetto Ritorni

Mariateresa Surianello
 
Quale luogo migliore avrebbe potuto ospitare l’inaugurazione di una grande iniziativa dedicata alla danza se non lo storico Teatro Valle di Roma? L’Ente Teatrale Italiano ha spalancato questo gioiello architettonico all’ospitalità di tre danzatori-coreografi emigranti, per il primo appuntamento del progetto inter-regionale “Spazi per la danza contemporanea”, toccando uno dei temi più dolorosi riguardante l’intero “settore” delle arti performative italiane, la fuga all’estero in cerca di formazione, prima, e di accreditamento, dopo. Intitolato simbolicamente “Ritorni”, il programma ha racchiuso gli spettacoli di Maria Donata D’Urso, Giulia Mureddu e Francesco Scavetta all’interno di una cornice di accoglienza e di conoscenza, che dal 30 gennaio al 3 febbraio ha trasformato il Valle in una zona di incontro informale. Anche il convegno coordinato da Andrea Nanni, che è partito indagando la vita e l’arte dei tre protagonisti, si è poi svolto con uno spirito di apertura e di ascolto delle tante realtà presenti in sala. Per molti artisti è stata questa un’occasione importante di confronto tra la propria e l’altrui esperienza. Voci differenti sono emerse, con storie diverse, che purtroppo sono confluite in un solo coro: più spazio alla danza contemporanea.

Proprio a partire dalla presa d’atto di un disagio cronico, l’ETI si sta muovendo sul territorio di Lazio, Piemonte e Campania con questo progetto pilota, finanziato dal Mibac (Ministero dei beni e delle attività culturali) nell’ambito del Patto Stato-Regioni. Un esperimento che si svilupperà per un triennio (2007-2009, decollato a fine gennaio a causa delle solite pastoie burocratiche italiane), attivando una rete di contatti, appunto, inter-regionali, tra strutture e realtà creative, con l’auspicio di renderli permanenti per la circuitazione di opere contemporanee. All’ETI il compito di predisporre una sorta di accompagnamento nel rispetto delle sue nuove funzioni, previste dall’Atto di indirizzo del Mibac (dell’aprile 2007) nel più ampio processo di ristrutturazione e di trasformazione dell’Ente stesso. Per il direttore generale, Ninni Cutaia, questa funzione di supporto fornita dall’ETI «ove richiesto» permette di creare relazioni istituzionali e «immaginare un quadro di intervento più vasto» nel prossimo futuro. Cutaia parla chiaramente di “questione culturale”, quando sottolinea l’assenza di spettacoli di danza nei teatri pubblici, i cosiddetti teatri di prosa, mentre è convinto che «mescolare le cose potrebbe essere salutare per il pubblico». Il problema da superare risiede nelle norme del Ministero – ricorda il direttore dell’ETI. Parole condivisibili e che lasciano sperare un impegno – almeno, per quanto di sua competenza - verso l’anelato cambiamento del sistema.

Intanto, l’ETI ha offerto alla contemporaneità l’occasione di abitare un teatro prestigioso, che si è mostrato adattabile alle necessità di spettacoli di danza più di altri spazi romani considerati idonei a tali allestimenti, come Lapsus di Maria Donata D’Urso ha dimostrato. Emigrata in Francia una ventina d’anni fa, la danzatrice e coreografa catanese ha trovato un felice escamotage nella chiusura del sipario antifuoco che ha permesso, con lo schiacciamento del boccascena, il concentrarsi della visione all’interno di un rettangolo ristretto, al cui centro una grande struttura circolare accoglieva il suo corpo. Complice la superficie concava di questo anello, D’Urso dà vita a un assolo caleidoscopico e immaginifico, spiazzante nel suo incipit e poi giocato tutto sulla creazione di figure scultoree, in continuo divenire. Il movimento incessante del corpo, in perfetta sincronia con le luci di Caty Olive, crea attimi fugaci di assestamento, subito annullati da quella luce riflessa sulla pelle che innesca un processo di visione in costante ambiguità. La musica di Vincent Epplay completa l’immersione dello spettatore in quest’opera magnetica e generatrice di forme disumane, immediatamente sfocianti in umanissime sembianze.

Tutt’altra dimensione stabilisce Giulia Mureddu con la sua prova Mighty Matpogo, che sembra aver assorbito un algido sense of humor dal paese in cui risiede da almeno un quindicennio, l’Olanda. Guidati da un “logorroico” dj (il Mat Pogo del titolo), tre danzatori (Katerina Dietzova, Hilde Elbers e Kay Patru) disegnano diagonali e piccoli nuclei, si allontanano e poi si ritrovano, in un flusso un po’ meccanico, e forse ancora poco rodato, ispirato all’idea del fallimento come esito dell’umano agire.

In chiusura di questi “Ritorni”, Francesco Scavetta ha proposto il suo ultimo lavoro, che indaga l’identità giovanile assorbendone linguaggi ed emozioni, già con l’esortativo titolo. Hey dude, let’s stick around a bit longer this time è un tuffo poetico nella quotidianità contemporanea, nel vissuto impastato di spontaneità e luoghi comuni, di sentimenti d’amore e di facili ma dolorosi abbandoni. Un’abbondante quantità di sabbia è sparsa sul palcoscenico a formare piccole dune, dalle quali fuoriescono prima scarponi e poi, a sorpresa, un intero corpo seppellitovi. Brani di videogames passano sullo schermo, mentre un attore regala frammenti di vita ordinaria nel silenzio o sulle musiche di Luigi Ceccarelli, che rinnova qui il felice sodalizio con Scavetta. Originario di Salerno, il coreografo, attivo in Norvegia da molti anni, dove - a Oslo, nel 1999 – fonda la Wee Company, conserva nelle sue creazioni una solarità tutta mediterranea che coniuga a un rigore di sapore nordico. Nel paesaggio di Hey dude la danza fluida e leggera (in scena, tra gli altri, Gry Kipperberg, co-fondatrice di Wee), che solleva granelli di sabbia come un venticello su una spiaggia di fine estate, si fonde in dissonanza col violino elettrico di Diego Conti, creando continui cortocircuiti anche con la parola. C’è meno ironia e più disincanto in questa nuova opera di Scavetta. E tanta profondità nella ricerca di nuovi percorsi.