Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 13 Del 31 - 3 - 2008 |
La Cittŕ e l’Altro |
Un dialogo con Marc Augé |
Attilio Scarpellini |
Affascinato dai fenomeni religiosi e sociali che caratterizzano molte comunità Africane, Marc Augé, classe 1935, finiti gli studi di etnologia, nel giro di una decina di anni divenne una voce autorevole tra gli africanisti contemporanei. Ma a partire dagli anni ‘80, il suo sguardo si ribalta e dalle società extraeuropee si sposta alla realtà occidentale. Dall'Africa alla Francia, dai villaggi al metrò, Augé inizia ad applicare al nostro quotidiano i metodi tradizionalmente riservati dalla ricerca antropologica allo studio del “lontano”, arrivando alla formulazione di una inedita “etnologia del vicino”. Professor Augé, l'analisi del mutamento degli spazi urbani che lei ha svolto in Tra i confini. Città, luoghi, interazioni (Bruno Mondadori, 2007) sembra convergere con quella di altri pensatori come Paul Virilio e Zygmunt Bauman. Anche lei denuncia una progressiva privatizzazione degli spazi urbani da parte di una élite che si ripiega nella proprie cittadelle ipertecnologiche, all’occorenza fortificate, lasciando gli underclass fuori dalla porta. Andiamo verso una città sempre più socialmente segregata, a dispetto del suo carattere globale? Sì, una tendenza a produrre una sorta di apartheid degli spazi sociali esiste e si accentua. Ma non bisogna confonderla con la vecchia opposizione geografica tra il centro e la periferia che invece tende a sfumare. Ci sono periferie molto borghesi e, spesso all’interno della stessa città, sacche di degrado nei centri storici dove si ammassa una popolazione svantaggiata, costituita prevalentemente da immigrati. La verità è che, nel processo di globalizzazione, centro e periferia non sono più definibili in rapporto allo spazio geografico. E' stato proprio Virilio a sottolinearlo: il globale rappresenta ormai l’interno del sistema, mentre il locale è l’esterno, la periferia del mondo. Ciò detto, la tendenza alla segregazione sociale negli spazi urbani è in crescita: ci sono sempre più spazi dove persone o comunità diverse abitano vicine, si incrociano, ma non si mischiano tra loro, non producono un vero incontro. Un esempio è il centro commerciale Chatelet-Les Halles, nel Metrò di Parigi: qui i giovani delle periferie si muovono in un flusso continuo tra i due piani della struttura, dove si trovano supermercati, negozi e merci di ogni tipo. Ma solo raramente risalgono in superficie ed entrano in contatto con quella che storicamente era la città. Sui treni della ReR (la rete ferroviaria suburbana) chi va all’aeroporto di Roissy, magari per volare alla volta degli Stati Uniti, incrocia i giovani immigrati che fanno ritorno nelle loro banlieues sognando un’America in cui probabilmente non andranno mai. Un paesaggio non molto dissimile, del resto, si offre alla visione globale: c’è un centro e ci sono dei paesi svantaggiati. Ma all’interno di queste periferie ci sono realtà che appartengono al sistema mondiale, proprio come esistono zone di sottosviluppo in piena New York. L’unico dato certo è che, nel mondo, lo scarto tra più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri continua ad aumentare e a produrre discriminazione... Nel nostro passato più recente l’urbanizzazione era considerata un fenomeno « progressivo », legato alla promozione sociale e alla crescita economica delle classi sfavorite: negli anni ’60 la città era il luogo dell’integrazione per eccellenza. Il razzismo e l’intolleranza, invece, abitavano il paese profondo, identitario ed extraurbano… La concezione moderna vedeva nelle città dei centri di integrazione che gli urbanisti avrebbero ritagliato prendendo le misure sull’utopia sociale di uno spazio dove tutti avrebbero potuto crescere e vivere senza essere sradicati. È la città radiosa di Le Corbusier. Ed è il principio generoso sul quale, nell’ Europa dei welfare, sono state edificate molte periferie, ad esempio quelle francesi dove, secondo le idee dominanti negli anni ’60, i lavoratori immigrati avrebbero potuto vivere più comodamente e integrarsi alla classe operaia francese. Come andò a finire è tristemente noto: la comparsa della disoccupazione e l’irruzione di una nuova mobilità sociale ruppero violentemente questo progetto di stabilizzazione, trasformando le periferie in ghetti dove si concentravano dei nuovi underclass. Le banlieues divennero sinonimo di immigrati, disoccupati e famiglie numerose. Un polo negativo, una zona pericolosa che commerci e servizi presero a disertare. Il contraccolpo della crisi fu il ripiegamento identitario e la legittimazione di parole d'ordine come quelle del Front National che speculavano sul disagio e sulla paura sociale, soprattutto della piccola borghesia, ma anche di fette sempre più consistenti di classe operaia, indicando nell'immigrato, diverso e prolifico, il responsabile della disoccupazione e della perdita di benessere. Fin quando il “polo negativo”, sempre più compresso, non è esploso, come è accaduto con la rivolta delle periferie parigine… L’esplosione senza dubbio c’è stata, e continuamente incombe, ma non credo si possa parlare di rivolta. Ci sono stati dei giovani in alcune periferie che, attraverso il contagio delle immagini, hanno propagato un incendio. Se ci si pensa bene, hanno amplificato un gioco, quello di bruciare automobili, che esiste da diversi anni e che continua tuttora anche se su scala ridotta. E’ stato un evento che ha brillato per eccesso ma fatalmente destinato a esprimere più di quel che riusciva a dire. Le banlieues in fiamme non rispondono ad alcuna parola d’ordine rivoluzionaria, a nessuna spinta politica, esprimono la volontà di giovani emarginati dal sistema scolare e dal mercato del lavoro di esserci e di essere inclusi nella società dei consumi da cui sono in maniera evidente tagliati fuori. La maggior parte di loro sono francesi, almeno sulla carta, ma hanno il sentimento di non avere i diritti legati a questa cittadinanza. Di non avere gli stessi diritti ma, soprattutto, di non poter accedere allo stesso livello di consumi dei loro coetanei “bianchi”. In un’intervista rilasciata a quell’epoca, lei ha detto che i giovani delle periferie volevano passare “dall’altre parte dello schermo”. La violenza e la televisione, dunque, sono diventati gli strumenti privilegiati con cui gli esclusi cercano di accedere allo spazio pubblico? Nel nostro sistema si esiste solo attraverso l’immagine. Quando si parla di persone che contano - che si tratti di sport, di politica o di spettacolo – si parla anzitutto di persone che abbiamo visto o vedremo in televisione. Basta guardare le trasmissioni oggi più popolari, come i reality, per rendersi conto che le persone normali che sempre più spesso vi partecipano sembrano felici e naturali, cioè si integrano con disinvoltura nel gioco ambiguo che non distingue più tra la realtà e la finzione. Chi è nello schermo esiste e quel che accade alla televisione è ciò che succede nel mondo: questa è la sensazione e il riflesso comune, a cui nessuno di noi riesce del tutto a sfuggire. Non si può non tenere conto dello schermo. Ma da qui a sostenere, come fanno in molti, che la tv è lo spazio pubblico, la nuova agorà, ce ne passa. E' uno spazio pubblico contraddittorio, manipolabile, che va controllato. Tornando alla città globale, in Perché viviamo? (Meltemi, 2004) lei scrive che il mondo sta diventando una città, ma “non tutte le città diventano allo stesso titolo il mondo”. La città-globale, dunque, non è uguale per tutti ? Non lo è al suo interno e non lo è nel rapporto tra una città e un’altra: all’interno del sistema di globalizzazione alcune città, per parafrasare Orwell, «sono più uguali di altre». All’interno delle stesse metropoli, come sempre più spesso accade in Occidente, non tutti hanno lo stesso accesso alle mobilità e ai consumi (e questo è appunto l’unico messaggio chiaro che è stato lanciato dalla rivolta delle banlieues parigine: vogliamo essere come gli altri, partecipare anche noi alla società dei consumi). L’urbanizzazione a cui stiamo assistendo oggi è un fenomeno diverso e più ambiguo che, trattato in termini di descrizione etnografica, rinvia alle figure più svariate: spostamenti di popolazioni, come nel caso dei desplazados dell'America Latina, grandi campi di raccolta in Africa che configurano dei veri e propri spazi urbani dove però il confine tra città e campagna è incerto, creazioni urbane ex nihilo come quelle che sorgono in Cina. Ma è soprattutto, la massiccia spinta migratoria dei paesi poveri verso i paesi ricchi a definire il fenomeno. Che così si presenta sotto due aspetti contradditori ma indissociabili, come facce di una medaglia: da una parte il mondo è una città, una immensa città in cui lavorano gli stessi architetti, dove si ritrovano le stesse imprese economiche e finanziarie, dove circolano gli stessi prodotti e le stesse merci. Dall’altra, la grande città è un mondo dove si ritrovano tutte le contraddizioni e i conflitti del pianeta che sono per l’appunto una conseguenza dello scarto crescente tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri. Da una parte uniformità, se non omologazione, dall'altra diversità. Il mondo-città e la città-mondo sono sì intrecciati l'uno all'altra, ma in modo contraddittorio. Il mondo-città rappresenta l'ideale e l'ideologia del sistema della globalizzazione. Nella città-mondo, invece, si esprimono e spesso si scaricano le contraddizioni e le tensioni che il sistema genera. Vedere il primo, cercando di nascondere le seconde nella sua immagine ideologica, è puro accecamento. Nel frattempo il fossato continua ad allargarsi… Purtroppo si allarga anche all’interno dello spazio che dovrebbe essere condiviso, come accade nelle nostre città dove ad esempio la mobilità, nel senso della politica dei trasporti, rende estremamente difficile la comunicazione tra periferia e periferia, moltiplicando lo svantaggio e l’esclusione. Mentre al tanto parlare che si fa di mobilità sociale e di precariato organizzato corrisponde un blocco della scolarità che impedisce ai giovani esclusi delle periferie di trarre un profitto reale dal sistema di istruzione e di accedere in questo modo a lavori più qualificati. A differenza di altri intellettuali, lei sembra attribuire ancora molta importanza all'educazione. Se nelle scuole dei cosiddetti quartieri difficili ci fossero classi con dieci alunni, tutto funzionerebbe meglio e a quel punto ci si potrebbe concentrare sulla pedagogia e sui metodi di insegnamento. Ma la prima cosa è riuscire ad avere pochi alunni e molti insegnanti. Anche se costa soldi. Sarebbe l’inizio di una rivoluzione che, rispetto ad altre, ha il vantaggio di non essere tecnicamente impensabile. |