Chejà Celèn e Nuove Tribù Zulu
Chejà Celèn e Nuove Tribù Zulu
Un'altra immagine dallo spettacolo
Un'altra immagine dallo spettacolo

Anno 1 Numero 13 Del 31 - 3 - 2008
Dialogare in italiano
In corso la terza edizione del “Dialog Festival” per il confronto fra culture

Gian Maria Tosatti
 
E’ difficile anche essere italiani. A Ostia, Fiumicino o altri quartieri dell’immediato litorale romano. Nel collegio elettorale di Teodoro Buontempo, detto “er pecora”, ci sono italiani e italiani. Non ci sono scontri, non c’è agone politico. Semplicissima intolleranza tra chi sceglie di pensarla diversamente dagli altri e chi non è d’accordo e spesso tira fuori il coltello.
Per questo motivo ho preso la macchina, ho fatto la Cristoforo Colombo all’ora del rientro e sono tornato a duecento metri da dove per un periodo ho vissuto. Al Teatro del Lido c’era Dialog festival, una rassegna di pratiche artistiche dedicate all’incontro fra culture migranti. Per l’apertura era programmato uno spettacolo concerto di Chejà Celen (che in lingua rom significa “ragazze che ballano”) e Nuove Tribù Zulu. Lo stimolo era politico prima di tutto, ma politico “alto”, un po’ da intellettuali. Mi aspettavo un gruppo di gitane forti di una cultura secolare, danzare le proprie note interiori duettando con Andrea Camerini e compagni, sfoggiando una bellezza ancestrale tramandata col sangue. Aspettavo gli zingari lunari, quelli che traspaiono nelle parole del funambolo di Jenet quando dice: «Voi siete ciò che resta di un era favolosa. Tornate a noi da molto lontano. I vostri antenati mangiavano vetro sminuzzato, fuoco, incantavano serpenti e colombi…»

E invece era tutto diverso. Davanti ai miei occhi non c’erano delle donne, ma delle bambine. Non erano forti di quella identità mitica, ma fragili. E le loro danze non erano vorticose, ipnotiche, abbacinanti. Erano tentate, sbagliate sì, a volte, ma col sorriso ingenuo di chi ci prova e ha sette, dieci, tredici anni.
Sul palcoscenico le sonorità balcaniche dei musicisti strigliavano il pentagramma, anarchiche e allo stesso tempo puntuali. Il cantante ci metteva su i suoi versi, parole di chi ha nella testa il rumore del vento che porta via, come appunto le carovane nomadi. Ma ad ascoltarlo bene, questo lamento ritmato, sembrava tutto italiano, profondamente italiano: la litania di chi non viaggia per viaggiare, ma per sopravvivere, come gli antichi popoli che lasciavano le terre inaridite, le terre che dichiaravano fallimento.
C’erano un sacco di persone su quel palcoscenico che volevano spiccare il volo. E ce n’erano anche in platea, quando Camerini, istrionico, col suo turbante in testa, chiede al pubblico quanti avrebbero voluto cambiare vita, e magari andarsene… in India (come recita uno dei suoi testi). Mani alzate. Tante. Quasi tutte.
E mentre sul palco lui diceva la sua e chiedeva alle giovani danzatrici, un fuori programma, a me sembrava che davvero la questione razziale non esistesse. Gli zingari non erano né i semidei della letteratura, né i delinquenti della cronaca. Erano un gruppo di ragazzine nate e cresciute dentro un campo di concentramento all’estremo limite del quartiere Monte Mario, senza un futuro da giocarsi, senza una prospettiva d’integrazione, senza nemmeno l’Italia. I cittadini di Ostia non erano né gli italiani che decidono di pensarla diversamente né gli italiani col coltello che non sono d’accordo. I “negri” non erano né quelli di chi li chiama così in senso dispregiativo né quelli di Jenet (andati in scena due giorni dopo ad opera della compagnia Temperamenti Teatro, in un progetto coprodotto da Fabbricaeuropa). A me sembravano tutti italiani, tutta gente in cerca di qualcosa di meglio. E a me pare che questi siano gli italiani. Gente che in fin dei conti non ha nemmeno un sogno tutto intero, ma giusto qualche frammento, acuminato quanto basta per farcisi sanguinare.

Alla fine di tutto c’erano anche alcuni politici. Quelli minori, quelli che stavano in mezzo alla gente durante gli anni del loro mandato e che spesso non vengono nemmeno ripresentati nelle liste dei propri partiti. Insomma c’era la società civile di questo paese nel bruttissimo Teatro del Lido. Un’architettura assai più degradante di un degradato campo rom, realizzata da un comune di sinistra e da un municipio di destra, capace di esprimere alla perfezione i miracolosi risultati della politica italiana bipartisan. Un luogo che sembra il teatrino della parrocchia dei poveri e che invece è una delle prestigiose e autocelebrate sale del teatro pubblico capitolino.
Insomma, alla fine della canzone tante belle persone, con tanti bellissimi sogni, chiusi dentro una scatola agghiacciante. La metafora non ha bisogno di spiegazioni…

In teatro:
Dialog Festival. Ostia (RM), Teatro del Lido. Fino al 2 apile.