Anno 1 Numero 13 Del 31 - 3 - 2008
Estrema razzio
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
«Il problema della razza esiste. L’odio è potente. E nasconderlo è assai peggio che riconoscerlo e cercare di curarlo». Cito a memoria le parole di Barack Obama, che nei giorni scorsi ha affrontato in modo lapidario una delle questioni cruciali della corsa alla Casa Bianca. Stava a lui pronunciarsi, a lui che bianco non è - e che a vedere le foto che manda in giro la sua rivale democratica è ancora più “negro” di quanto già non sia. Poche parole allora per dire una ovvietà, in un paese che dalla sua fondazione non ha mai avuto una “etnia realmente dominante” - se non in senso politico – e che ha dovuto fare della multirazzialità una condizione necessaria d’esistenza. Ma, appunto, politico è sempre stato il problema della razza in America, dove l’identità del popolo non è in discussione e si regge ben salda sulla costituzione di Filadelfia (città che ha tirato un sospiro di sollievo nei giorni scorsi per la sospensione della pena capitale di Mumia Abu-Jamal, storica bandiera dei giornalisti e degli attivisti di colore). Situazione analoga per altri paesi in cui i problemi razziali hanno portato a stati di guerriglia urbana, come nelle banlieue parigine. Anche lì la questione è squisitamente politica: l’accessibilità alle risorse. D’altra parte mito democratico della Republique, è il mito che fa tutti francesi, i magrebini  sbattuti nel degrado e Carla Bruni.
In Italia la questione è diversa. Qui è un problema di identità. Essere italiano non è come essere americano, francese o britannico (si pensi agli arabi londinesi). Essere italiano non vuol dire niente di particolare. O magari sì, ma non è chiaro. Oggi non è chiaro. L’Italia, in effetti, è un paese messo insieme dalla televisione, che parla una lingua scritta dagli autori Rai negli anni ’60. Dimentico il Risorgimento? Non sono sicuramente il solo. E se me lo ricordassi bene avrei tutte le obiezioni del caso. Morale della favola, quando mette piede in casa nostra un’altra cultura ci fa tremare sulle nostre fragili ginocchia.
A non tremare forse sono solo i giovani fascisti che si sentono italiani (Fiore, leader di Forza Nuova, dice che invece di raccogliersi fanaticamente sotto le insegne di una squadra di calcio è meglio raccogliersi fanaticamente sotto il tricolore). Ma poi se si va a vedere non è certo il tricolore che sta alle radici del mito romano fascista, falso tanto quanto il neoclassicismo d’inizio Novecento. E allora anche loro si contraddicono e si sentono più in pericolo di tutti perché sono i più ignoranti e dunque i più deboli. E - come i piccoli, poveri e sconfitti, proprietari degli Stati del Sud che temendo l’avanzata della democrazia multirazziale si calavano i cappucci appuntiti del Ku Klux Clan - essi si infilano nei loro “bomberini” neri e progettano pestaggi.

Ma, abbandonando gli estremi - di per conto loro poco interessanti perché non fanno numero - in questa campagna elettorale quello che ha colpito molti è stata per la prima volta la totale mancanza di questioni concrete negli slogan dei partiti. Vicino alla faccia di Veltroni si legge: “non pensare a quale partito, pensa a quale paese” – che non vuol dire assolutamente niente. Come niente vuol dire il mutuato “Yes, we can”. Nei cartelloni della Sinistra Arcobaleno c’è scritto “fai una scelta di parte” – nemmeno spiritoso come i vecchi slogan operai tipo “pane e f… per tutti”. Ma anche il tradizionalmente più pragmatico Berlusconi alza bandiera bianca e l’incisivo “meno tasse per tutti” del 2006 lascia il posto ad un vuoto “rialzati Italia”. Insomma, se un tempo si diceva “fatti e non parole” oggi non ci sono più nemmeno le parole. Ma c’è un’eccezione. Un unicum nel panorama comunicativo nazionale. Un manifesto del Pdl recita: “mai più clandestini sotto casa”. E allora visto che è l’unico manifesto che propone qualcosa di concreto, sarà pur giusto cercare di capire dove voglia andare a parare. E a leggerlo bene, per il modo in cui lo slogan è formulato, l’accento sembra cadere non tanto sulla lotta alla condizione di clandestinità, quanto sulla lotta alle persone fisiche che stanno “sotto casa” degli inquilini italiani. Questi toni che ormai da anni fanno parte dell’arsenale verbale della Lega, preoccupano un po’ di più quando sono ambiguamente scritti a caratteri cubitali da partiti di maggioranza, correndo il serio rischio di spostare la questione dal piano della sicurezza a quello dell’intolleranza. Giacché non c’è scritto “mai più delinquenti sotto casa”. Chi parla di sicurezza, al ladro, all’assassino, al lenone, sostituisce il “clandestino”, quindi necessariamente lo “straniero”.

Eppure gli stranieri sono importanti. Sia perché a casa nostra fanno funzionare l’economia, sia perché a casa loro ci aiutano a capire ancora più chiaramente come il problema della razza coincida con quello dell’identità. Alzando gli occhi oltre i bordi dello stivale in queste ultime settimane si è potuto assistere agli scontri in Serbia per l’acquisita indipendenza dei kossovari, e ancora di più a quello tra i cinesi, la cui cultura comunista è ormai da due generazioni screditata nelle fondamenta, e i tibetani, depositari di un patrimonio identitario assai più potente. E così, guardando in casa dei nostri principi della clandestinità (i balcanici e i cinesi) impariamo che laddove sono le forze di governo a dimostrarsi intolleranti si consuma la paura di un popolo dall’identità in brandelli che teme altri soggetti, fossero anche più deboli e più indifesi.