Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 15 Del 14 - 4 - 2008 |
Il problema del punto di vista |
Curata da un connazionale la mostra “Cina XXI secolo” al Palazzo delle Esposizioni di Roma esprime una visione complessa degli artisti e dei loro contenuti |
Attilio Scarpellini |
Guardano verso un punto fuori dal quadro i sei uomini che portano sulle spalle una lunga sbarra sullo sfondo di una tendopoli azzurra che digrada sulle rive dello Yangtze. Guardano, ma non guardano noi, visitatori della mostra Cina XXI secolo al Palazzo delle Esposizioni di Roma dove i quattro pannelli sono esposti; e probabilmente non guardano neanche Liu Xiaodong, l’artista che li ha messi in posa. Verrebbe da dire che guardano e basta, perché sono lì, bloccati su una specie di soglia: alle loro spalle ci sono le montagne sfumate e azzurrine di una Cina immemoriale, davanti a loro c’è il vuoto del “Grande Balzo in avanti” della Cina post-maoista che in nome dello sviluppo sposta milioni di persone dalle terre che abitavano, devasta immense zone rurali a forza di cemento, distrugge siti archeologici. Sui loro volti è impressa una saggezza triste che non si dà nemmeno più parole per quel che accade, come non se ne diede probabilmente la generazione di Piazza Tian’anmen dopo il 1989 quando venne costretta a uscire di scena con tutte le sue speranze. Quelli degli sfollati della Diga delle Tre gole dipinti da Liu Xiadong, sono tra i pochi sguardi di una mostra che ha l’ambizione di essere la prima in Europa ad esporre l’arte contemporanea come la vedono i cinesi e non come la vedono gli europei. Nelle fotografie di Weng Fen il punto di vista è per così dire rovesciato: in una serie di cinque immagini, due ragazze di spalle, sempre uguali e sempre diverse, contemplano gli skylines avveniristici di Shangai, di New Beijing e di Guangzhou. Noi guardiamo quello che loro guardano e in questo modo ci trasformiamo anche noi nell’elemento di fragilità di un paesaggio potente. Accade anche nei light box di Yang Yong, ambientati nei non-luoghi della Cina metropolitana: in Anonymous Still 3 una ragazza è ferma nel flusso cangiante della folla in quello che potrebbe essere sia un aeroporto che un supermercato ed è l’unica figura a fuoco in un mondo sfocato, l’unico elemento statico in un’immagine dinamica, ma anche in questo caso il suo volto, piegato sul display di un telefonino, ci sfugge. L’anonimo e l’individuo nella società cinese contemporanea sembrano identificarsi strettamente e ciascuna di queste allegorie – a cominciare dai grandi affreschi fotografici di Wang Qingsong di cui abbiamo parlato nel numero scorso – raffigura l’ossimoro della cosiddetta “double sex economy” in ciò che ha di più stucchevole e di più invincibile: un conformismo individualista che, attraverso il mercato e i suoi simboli, vuole parlare all’Occidente da pari a pari. Volendo si può ricorrere al saggio di Zhu Qi, uno dei due curatori (assieme a Morgan Morris) della mostra, pubblicato sul catalogo edito da Giunti, dove si mette drasticamente fuori gioco l’epoca della “diversità culturale” tra le arti, per proclamare l’avvento di una specie di pensiero unico dell’arte e del mercato a cui il contemporaneo cinese apparterebbe di diritto e senza più bisogno di mediazioni culturali (forse è per questo che il percorso espositivo di Cina XXI secolo è del tutto privo di indicazioni di lettura). Liberandosi della griglia “culturalista” in cui lo sguardo europeo lo ha a lungo relegato, l’artista cinese sopravvissuto a Tian’anmen conquista secondo Qi un nuovo sguardo individuale, e la capacità di articolare liberamente tutti i linguaggi della ricerca artistica contemporanea. Ma è anche troppo evidente che questa libertà nella globalità dell’espressione è funzione della vera potenza che plasma sia la Cina che il mondo sull’indiscutibilità – sull’”inesorabilità” dice Zhu Qi – di un unico modello di sviluppo. “Ogni paese che voglia far parte del nuovo mondo deve inevitabilmente scegliere il potere delle macchine e dell’elettronica, la produzione delle imprese insieme al sistema aziendale e al sistema dei crediti finanziari, deve dar vita a centri urbani…”: al culmine di questa trasformazione collettiva – di cui non è difficile intravedere tra le righe la violenza – l’arte non è che il residuo contraddittorio di un individualismo che è destinato a parlare al sistema con l’arma ambigua della parodia (come fa Qingsong) o con quel nichilismo glamour che, a Pechino o a New York, contraddistingue tanta cultura pop metropolitana fino a ridurla, come accade con le “scatole di luce” di Yang Yong, a una impoverita gesticolazione. L’idea che gli eterogenei linguaggi che si esibiscono sulla scena rarefatta di Cina XXI secolo non si differenzino granché da quelli abitualmente in uso nell’arte contemporanea internazionale, in particolare americana, è assai meno consolante di quanto i curatori della mostra ci vogliano far credere. Sapevamo già che il mercato è il pensiero unico del mondo. Ora sappiamo che il contemporaneo è il pensiero unico dell’arte. |