Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Il corpo e l’ombra |
I Muta Imago e il “discorso della guerra” |
Attilio Scarpellini |
Cosa dicono i Muta Imago? E soprattutto cosa raccontano le immagini che senza posa si compongono e si scompongono, affiorano e si ritraggono nel cineteatro del cubo magico di (a+b)3? Anche volendolo, non c’è tempo per indovinare il “prestigio” di questo alto illusionismo che trasforma una storia semplice – la più semplice possibile: quella di due amanti separati dalla guerra – in un balletto di apparizioni dove il corpo è in un luogo e l’ombra in un altro: dove il corpo è piccolo, raccolto in una scorza di luce assediata dalla notte, composto in un’immaginetta come quella, accurata fino ad essere leccata, della cena a due (con quel vino color rubino che gorgoglia e ipnotizza, attraendo e nel contempo deviando lo sguardo dalla sensualità discreta dell’intero quadro), mentre l’ombra è immensa, cangiante, moltitudinaria, come se del corpo avesse ereditato tutta la libertà e la sofferenza, la disperata volontà di continuare a essere oltre i confini che lo inchiodano nello spazio della Storia. Come l’ombra staccata di Peter Schlemil che nel racconto di Chamisso se ne va errante e solitaria in cerca del proprio corpo. Come l’ombra dell’amato che la fanciulla di Corinto trattiene sul muro dove la luce di una lanterna l’ha proiettata, riempiendola di creta, un racconto di fondazione sull’origine della pittura che in (a+b)3 rivela apertamente il suo carattere reliquiale (se non addirittura di evocazione magica) nel momento in cui Claudia Sorace ritaglia, accartoccia e nasconde, nel suo seno, la figura fissata sulla tela della testa del fidanzato (Riccardo Fazi) che poi nell’ultima scena si premerà sul viso. Veronica o mandylion, statua dolorosa o maschera estrema di bellezza e comunque “vera icon” che non sopravvive al suo modello perché, ombra che riveste la pelle, finalmente, lo incarna: come tutte le storie d’amore che si rispettano, anche quella dei Muta Imago celebra la propria impossibilità nella volontà di aderire al corpo dell’altro, di essere non più davanti ma teatralmente dentro un’immagine… E qui sta, per così dire, il segreto della sua animosa trasformazione visuale: non nell’immagine, come sempre, ma nel tempo che la rompe e la scandisce, non nella theoria – che viene dalle pagine sull’ombra di Victor Stoichita come potrebbe venire da quelle di Jean-Christophe Bailly – ma nella istorié che la permea e la drammatizza e, per quanto la contestualizzazione romanzesca di (a+b)3 sia un leggero arabesco - un’aria delicatamente anacronistica soffiata sui corpi e sulle cose - la traduce nella tragica singolarità di un destino. La guerra è l’altro di questo spettacolo e cioè il suo ritmo, la musica di una modificazione continua e inesorabile, l’onda d’urto che fa rotolare il piccolo mondo dei protagonisti sulla china rovinosa di una precoce rivelazione del dolore. E la guerra che si riversa nel cubo di (a+b)3 come un liquido di contrasto che espande la sua macchia è anch’essa (al pari del “mito” della fanciulla di Corinto) una guerra immemoriale tutta giocata sulla parallasse e sulla riconoscibilità dei suoi anacronismi: le immagini che scorrono su un televisore che occupa visibilmente il posto delle radio anni ’40 sono quelle dei combat film angloamericani della seconda guerra mondiale, ma le parole solenni della propaganda che le sostiene, alternandosi alle note di It’s long way to Tipperary, sono quelle con cui George Bush Junior ha lanciato l’operazione enduring freedom. Così l’unica parola articolata che penetra l’aria fredda della scena è una parola destinata a dire, in ogni senso, il falso e a produrre due corto-circuiti retorici: il primo, sicuramente consapevole, è di restituire un’immagine di continuità tra le guerre novecentesche e le presunte operazioni di polizia internazionale che le hanno rimpiazzate negli anni’ 90. Vista dal basso, mentre il buon soldato interpretato da Riccardo Fazi avanza sul posto sferzando l’aria con una lampadina, percepita nel tuffo al cuore degli scoppi di granate che non si sa da che parte arrivino e nell’intermittenza dei bengala che tracciano la notte, la guerra non è mai cambiata. Fu proprio il presidente Bush del resto – ed è il secondo corto-circuito – a giustificare le offensive militari dopo l’11 settembre del 2001 come una ripetizione ideologica dello scontro tra civiltà che aveva opposto le potenze democratiche al nazifascismo nella guerra del ‘40. Ed è per questo che le sue parole (false) suonano così credibili sovrapponendosi alle immagini d’epoca. Quando la storia si ripete, come diceva Marx, molto spesso si ripete in farsa. Ma il paradosso è che proprio nel suo essere identica a sé, prigioniera di un anacronismo e di una retorica che si ripetono – con gli aerei che si alzano in volo e le città rase al suolo - la guerra “aeropolitica” di (a+b)3 si iscrive indifferentemente nel nostro passato e nel nostro futuro, è prima e dopo di noi. La guerra è l’altro dell’amore perché essa è l’altro del desiderio e dell’immagine: ci volevano degli artisti di venti anni per distillare di nuovo la sua essenza immemoriale dall’alambicco delle banalizzazioni geopolitiche e farci ripensare l’arte dell’ultimo secolo come il lungo tremito di dissoluzione del volto umano nello specchio delle guerre. |