Anno 1 Numero 16 Del 21 - 4 - 2008
La parola oltre se stessa
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Nella semioscurità, un’ombra si delinea nella decisione dei controluce. Tutto poco visibile, suscettibile di scomparsa al minimo sussulto, alla prima parola. Uno spettro, come quello di Amleto padre nelle sue prime apparizioni, austero e fragile. Un’ombra, niente più che un ombra, col viso quasi del tutto coperto dentro di sé. Non si muove, non fa nulla, attende, chissà da quanto. E’ così che Samuel Beckett decide con Catastrophe di portare all’evidenza del mondo il suo punto di vista sull’uomo nell’era della guerra fredda, sulla politica europea dettata da Willy Brandt e su tutte le sue contraddizioni. Nero su nero. Senza parole, senza glosse. Per evidenza di contrasto. Nel 1982, mentre la strategia della deterrence si preparava a lasciar spazio alla strategia del dialogo, il mondo occidentale aveva il suo spettro, appena percettibile, ma con la sua grave presenza, inquietante, violento, destabilizzante. Beckett gli dette il nome di Vaclav Havel, un drammaturgo, un teatrante ceco, detenuto per la critica al totalitarismo sovietico contenuta nelle sue opere. Era dedicata a lui che la pièce che il drammaturgo irlandese presentò al Festival d’Avignon, uno dei luoghi in grado di amplificare maggiormente la deflagrazione dell’opera. La durata era di appena sei minuti. E in scena oltre al protagonista muto e inerme c’erano un regista dittatore e un’assistente che del suo corpo e della sua immagine disponevano a piacimento fino a ridurlo in pigiama, a renderlo ridicolo. Beckett, decostruttore della parola per eccellenza, sapeva che un oratorio politico non avrebbe avuto alcun effetto e si sarebbe ubriacato della stessa retorica nella quale erano annegate migliaia di altre prove teatrali. E aveva ragione. Il problema non era nel dire, ma nell’essere. Il suo uomo inerme, prototipo dell’artista o di chiunque voglia esprimersi in paesi senza libertà, stava di fronte agli occhi del pubblico come una evidenza che toglieva la parola ai discorsi politici e diplomatici, alla storia che si stava scrivendo, ma soprattutto la toglieva agli altri due protagonisti della pièce i cui discorsi diventavano quasi rumori di fondo, inquietanti echi, indistintamente roboanti attorno al silenzio del protagonista che all’ultimo momento apre gli occhi mostrando il volto come per dire “bastardi, non mi avete finito*”. Vaclav Havel e il suo muto omologo scenico era l’evidenza che quella metà d’Europa non era ancora morta e che di lì a poco avrebbe consumato la propria vendetta contro i suoi aguzzini (Havel divenne presidente della Cecoslovacchia e poi della Repubblica Ceca dall’’89 al 2003).
La parola, dunque, cedeva completamente al silenzio, ma tutto, in questa piccola opera dal grande impatto, era drammaturgico, dalla sua composizione scenica, finanche alla scelta del luogo, strategicamente perfetto, in cui l’opera sarebbe stata “esposta”.

In questa immagine sta tutta l’identità della drammaturgia di fine ‘900, che per la prima volta, consapevolmente, si smarcava fino in fondo dall’obbligo di parlare per dire. Quello che si verificava già nel cinema, nato nel muto e tornato più volte al muto, accadeva ora anche nella scrittura. Non la scrittura scenica, ossia la composizione visiva fatta dai registi autori, che negli anni ’60 e ’70 prendeva le distanze dal testo, ma appunto la scrittura drammatica, quella composta sulla carta da autori che non calcano le assi del palcoscenico, ma disegnano le linee di quaderni e libri. La scrittura drammatica abbandona il logos, si fa didascalia, a volte, o addirittura strategia. Il silenzio, come nella musica contemporanea, diventa un elemento compositivo fondante, come il bianco, nell’iride dei colori. E’ partendo da questa consapevolezza che nel primo decennio del XXI secolo la Societas Raffaello Sanzio - che ha al suo interno un drammaturgo eccezionale come Claudia Castellucci - decide addirittura di rifondare la Tragedia, ossia la base della letteratura occidentale, senza le parole. Tragedia Endogonidia, che ha attraversato i palcoscenici europei tra il 2002 e il 2004 può essere definita, al pari di quella beckettiana, un’opera ipertestuale. Tappa dopo tappa ha dimostrato la sua stringente struttura drammaturgica, rifiutando completamente il codice della parola e arrivando in ciò al parossismo già nel secondo (il primo aperto al pubblico) degli undici episodi, quello avignonese, quando la prima sezione dello spettacolo presentava un capro come il “poeta” autore dell’opera, e mostrava in un video come esso componesse muovendosi su un tappeto che aveva impresse le lettere del suo codice genetico. E subito dopo, da un paroliere elettronico, che tornerà più volte nel ciclo, qualcuno misteriosamente iniziava a porre domande, finché nel settimo episodio, a Roma, non sarà sull’immagine di una scimmia che il paroliere dichiarerà “sono io che parlo”, mettendo in piena evidenza la genetica della parola e dunque la sua imprescindibilità espressiva anche in assenza di essa.

Iniziamo così in questo numero una ricognizione dentro il concetto di retorica e chiaramente in quello di scrittura. Partiamo dalla drammaturgia senza parole, ossia quella scrittura scenica fugge la retorica della parola senza rinunciare alla sua essenza.


*Questa espressione riprende quanto dichiarato da Beckett quando un critico sollevò una certa ambiguità nel finale della piéce. Il drammaturgo rispose: “There’s no ambiguity there at all. He’s saying, you bastards, you haven’t finished me yet.”