Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 17 Del 28 - 4 - 2008 |
Alla periferia del presente |
Editorale |
Attilio Scarpellini |
Nella sua famosa Lettera a D’Alembert Jean-Jacques Rousseau spiega le ragioni per cui, a differenza di quel che credono i philosophes metropolitani, la città di Givevra non ha alcun bisogno di un “teatro di commedia”. La principale è che il semplice popolo ginevrino – Jean-Jacques pensa soprattutto alla “città bassa” – sarebbe corrotto dalla finzione teatrale e dall’importazione di sentimenti che non sono i suoi ma quelli della borghesia parigina che in materia di gusti e di spettacoli detta legge non solo alla borghesia svizzera francofona, ma a quella di mezza Europa. La Lettre è una grande critica della teatralità settecentesca e non di meno un piccolo saggio di sociologia dello spettacolo che però è stato spesso ignorato in quanto tale (Accademie e università gli hanno sempre preferito il Paradosso dell’Attore di Diderot) a causa dei sentimenti regressivi che l’autore esprime nei confronti del teatro. Rousseau è un platonico, ce l’ha con la mimesis, per lui il teatro – soprattutto comico, il grande bersaglio è Molière – significa finzione, imitazione, contagio. Gli uomini che ammirano le “belle favole” o piangono sulle “disgrazie immaginarie” che sono in scena, vengono ingannati alla radice del loro essere morale, inibiti nella loro capacità di agire su se stessi. Il teatro mente perché è rappresentazione, e ciò che “si mette in rappresentazione”, dice Rousseau, invece di avvicinarsi a noi ci allontana da noi stessi. Detto in due parole squisitamente novecentesche: la scena è inautentica. Rousseau sente la parete che si sta alzando tra il teatro e il pubblico e se il suo platonismo gli impedisce di scavare più a fondo nella finzione attoriale (come invece farà Diderot, cioè il critico per eccellenza) il suo gusto per il primitivo e l’arcadico lo porta a riabilitare, a scapito del puritanesimo calvinista di cui inizialmente sembra un esponente, il contatto fisico (e più propriamente sessuale) della danza popolare. Ma quel che più ci interessa è che l’autore della Lettera è un nemico di quello che oggi definiremmo “decentramento artistico” e lo è sulla base dell’esportazione di un modello culturale – il teatro mimetico con i suoi caratteri – che gli sembra anzitutto un modello metropolitano: salvaguardando una sua Ginevra immaginaria, piccola pastorale e senza teatri, dall’irruzione della comédie française crede di proteggerne l’autonomia politica e l’austerità repubblicana dall’invadente centralismo parigino.
Fine della parabola settecentesca. Se il povero Jean-Jacques fosse catapultato sul nostro mondo si renderebbe conto che l’omologazione territoriale ha fatto passi da gigante e che provincia e metropoli sono state effettivamente unificate da un solo linguaggio mimetico, ma che le spectacle nella dimensione a lui nota c’entra ben poco: i modelli (anzitutto comportamentali) di unificazione li ha veicolati un altro potente theatron (“ciò dentro cui si guarda”), quello televisivo, che non si accontenta di imitare la vita, la simula fino a rendere indiscernibile il confine tra la realtà e l’apparenza. Ma si renderebbe anche conto che, in questa generale regressione mediatica della presenza e del corpo, la finzione artigianale del teatro esprime una bassa intensità di simulazione e, al lato opposto, un grado di espressività a tratti imbarazzante per il main-stream dell’estetica contemporanea. E che l’unica verità di cui la scena resta depositaria è proprio quella prossimità tra attore e pubblico che la sua Lettera metteva in discussione quando sosteneva che, a dispetto del suo habitus assembleare, il teatro isola gli individui. La sua forza residua in quanto evento comunicativo anzi è racchiusa in un paradosso: l’atto teatrale non conta perché arriva comunque alle persone, ma perché si fa ancora tra le persone e con le persone in un luogo dove due diverse comunità (come le chiamava Grotowski) vengono fisicamente convocate sulla base di quello che non può essere definito altro che come un incontro. Ora – e qui il “passeggiatore solitario” dei boschi della Savoia dovrebbe vagare come un marziano nei non-luoghi della nostra era prima di capire – nell’attuale sistema delle comunicazioni l’incontro non è la regola, ma l’eccezione. La stessa idea di un teatro pubblico è l’eccezione territoriale di una politica che punta a una continua privatizzazione degli spazi e a respingere nel virtuale il bisogno di comunità (una specie di Hausmann collettivo è al lavoro nella rete e nella costruzione delle grandi autostrade informatiche destinate a svuotare le strade reali dalla loro inquietudine troppo umana). Detto in una parola: il teatro è periferico come lo è il corpo della collettività, di ogni collettività, metropolitana o provinciale che sia, declinata secondo lo standard di una comunità di teleutenti che si incontra senza mai rischiare l’urto – o il riconoscimento, per non dire della catarsi – all’interno dello stesso spazio. A che servirà allora tradurre in una rete di incontri territoriali un bisogno di spettacolo dal vivo che nel frattempo è stato espulso alla periferia della vita nazionale? Certo non a solleticare il territorio con gli input o le briciole di una cultura alta di cui il teatro continuerebbe ad essere uno dei simboli: borghesie da gratificare, più di quanto non lo siano, non ce ne sono più. Ma forse a ridurre una distanza (che è anche un debito di conoscenza) e a stringere una nuova alleanza all’interno della metacittà in cui viviamo. Utilizzando le forme del contemporaneo per quello che sono: un’istanza a un tempo critica ed espressiva capace di indurre anzitutto un desiderio di diversità – da sempre intrinseco all’espressione teatrale e allo stupore che comunque suscita la separazione del suo spazio – per poi liberare autonomia produttiva e imprenditoriale in loco. Ben sapendo che, come ha dimostrato il lavoro delle officine culturali del Lazio in questi anni, la strada del radicamento artistico non può essere che lunga, laboriosa e irta di equivoci, proprio perché ogni incontro si espone anzitutto ad essere un urto con l’altro. Non si tratta soltanto di costruire dei teatri dove da tempo non ce ne sono più, come a Formia, o dove non ce ne sono mai stati, come a Ceccano, e nemmeno di rinverdire una pedagogia residenziale che le avanguardie d’antan avevano già utopicamente frequentato (con risultati che in alcuni luoghi d’Italia hanno lasciato anche tracce indelebili), si tratta di inventare una tradizione per un teatro che fa parlare il territorio con il linguaggio del presente. |