Un'immagine da
Un'immagine da "A elle vide"
Teodora Castellucci in
Teodora Castellucci in "A elle vide"

Anno 1 Numero 17 Del 28 - 4 - 2008
Che cosa manca
Sineddoche cinico-realista per l’atavica povertà culturale della provincia laziale

Gian Maria Tosatti
 
Isola del Liri, sera. Davanti al cinema-teatro, per uno degli appuntamenti di Spazi per la danza contemporanea (la rassegna di contemporanea curata dall’Eti), c’è un numero più che dignitoso di spettatori, circa un centinaio, che attendono l’inizio dello spettacolo. Tenendo conto del cartellone abituale cui il pubblico locale è sottoposto per intercessione dell’Atcl (il circuito regionale del Lazio), è davvero una bella sorpresa.
Chi l’avrebbe detto che dopo anni di teatro “scaduto” sarebbe rimasto ancora qualcuno a dar fiducia alle arti della scena. Tanto più che le decorazioni in stile Mondrian-marinaro degli interni dell’edificio, di per conto loro non è che invoglino più di tanto la frequentazione. Ma d’altra parte a Isola del Liri questo c’è. Ed è così più o meno in tutta la provincia laziale, che a differenza delle altre regioni del centro-nord non ha diversificato le sue offerte sul territorio e di fatto non si è sviluppata. Prova ne sia che Area 06, titolare di una delle Officine regionali per il Teatro si è spostata da Frosinone (primo luogo d’elezione cui s’erano rivolti) proprio a Isola del Liri, per la verificata impermeabilità del capoluogo ciociaro ad un intervento culturale che non impiegasse anche i marines.
A Isola del Liri, nel suo Cinema-Teatro, quindi, sono finiti sia il progetto Officine della Regione Lazio che Spazi per la danza contemporanea dell’Eti. Il terreno è duro e l’unione fa la forza. E in realtà questo è vero, perché i cento spettatori che prendono posto in sala per vedere Teodora Castellucci col suo A elle vide e Giovanna Velardi con Pupidda sono frutto di un impegno congiunto. Un intervento che vede a proprio agio gli effettivi di Area 06, che ormai conoscono personalmente uno per uno gli spettatori, e più in avanscoperta gli esploratori dell’Eti, arrivati da poco nella profonda provincia laziale.

Le luci si spengono e la nonna di un giovane spettatore, alla vista del palcoscenico vuoto e dei primi movimenti della Velardi che parla in francese, esordisce ad alta voce: “Questa non mi pare un’opera teatrale” (lasciamo al lettore di colorare con la cadenza del luogo). Ma di fatto, questo è l’unico momento critico, perché poi la serata fila liscia. Il pubblico applaude entrambi i lavori ed è soddisfatto. D’altra parte i due brevi pezzi di danza erano onesti ed esteticamente accattivanti. Entrambe le giovani coreografe avevano un’altissima consapevolezza della costruzione visiva e strutturale del proprio lavoro. Meno chiara risultava invece la direzione, ovvero il punto profondo che si vuole toccare davvero, a prescindere che l’opera sia più narrativa, come quella della Velardi, o più formale come quella della Castellucci.

All’uscita dunque c’è soddisfazione. Il pubblico si ferma a parlare, un po’ di teatro, un po’ di affari loro. Ma a parte questo non c’è nulla. Arriva anche l’assessore alla cultura. Scambia quattro chiacchiere e anticipa la prossima costruzione di un teatro comunale. Chi domanda però chi sarà a dirigerlo dovrà rassegnarsi a non ottenere risposta. Questo non per una scaramanticheria teatrale, ma semplicemente perché oggettivamente non c’è nessuno per dirigerlo.
Area 06 punta, da parte sua, alla concessione di uno spazio più piccolo e più gestibile in breve termine (anche perché a termine è anche l’impegno triennale degli operatori romani guidati da Fabrizio Arcuri). Ma anche lì, se raggiungibile pare il traguardo per l’ottenimento di uno spazio “contemporaneo” (palco a terra e tutto quel che è d’uopo), sempre latitante è una figura direttiva stabile, capace di raccogliere e far fruttare l’eredità degli operatori romani.

Si torna allora a casa. E a ripensarci due considerazioni fanno lampeggiare le loro lampadine. La prima è che l’intervento dell’Eti fa pressione sulle istituzioni locali, che aprono teatri, addirittura ne accelerano la costruzione e si aprono al contemporaneo, ma non basta se si vuole permettere che una volta finiti i progetti triennali resti qualcosa di concreto sul territorio. E non basta soprattutto perché i teatri si fanno prima con le persone che con gli edifici.
La seconda considerazione è collegata, anche in vista delle prossime mosse che il progetto dovrà produrre nel 2009. Per quel traguardo si dovrà necessariamente tener conto del fatto che per ora la carenza più grande, territoriale e progettuale, è quella di un intervento sul “vivaio” che possa formare sul posto operatori in grado di poter dialogare con le realtà nazionali.
L’Officina di Area 06 ci sta provando per via indiretta, ossia cercando di coinvolgere nelle loro attività alcuni giovani del posto, ma è una iniziativa totalmente arbitraria e basata sulla buona volontà. Mentre non c’è allo stato attuale, in nessuno dei progetti un capitolo – anche economico - dedicato a favorire lo sviluppo di associazioni e interlocutori culturali autoctoni. Per i primi mesi di presenza questo va bene, fa parte del rodaggio e del monitoraggio che deve prima individuare i problemi e poi trovare le soluzioni, ma chi osserva e segue l’evolversi di questo progetto, non può che suggerire la direzione del passo successivo sulla falsariga della politica di guerra americana: mandare degli “agenti dell’intelligence” sul posto per fargli formare un “esercito regolare”.