La casa di Frank Gehry a Santa Monica
La casa di Frank Gehry a Santa Monica
Un'immagine da
Un'immagine da "Napoli Milionaria" di Eduardo, simbolo della vita nei bassi

Anno 1 Numero 18 Del 5 - 5 - 2008
Essere ciò che si abita
Excursus geografico nella città dalle molte identità

Attilio Scarpellini
 
C’è una fotografia di Paul Strand che John Berger riporta e commenta in uno dei saggi di About Looking. Mostra due contadini rumeni, un uomo e una donna, appoggiati a uno steccato di legno. Dietro di loro un campo che quasi si smaterializza nella luce, un albero grigio e più in alto, tra il cielo e la collina, una casa bianca “del tutto insignificante dal punto di vista architettonico”. Il vero punctum dell’immagine secondo Berger è l’integrazione delle due figure nello spazio di un paesaggio potenzialmente infinito, segnato da un “senso tipicamente slavo di distanza, un senso di pianure e di colline che si susseguono”, che fa parte “della pelle della loro vita”. I due rumeni sono due persone “ampie” – lo sono persino nel gesto disteso con cui l’uomo non abbraccia la donna ma la circonda, nelle facce larghe e nelle grandi bocche o nella disinvolta inclinazione del cappello di lui – in un paesaggio ampio. Resta solo da notare che la “casetta moderna” che hanno alle spalle acquista un rilievo grazie alla sua insignificanza: l’unica finestra che si apre nel suo corpo squadrato di fantasma – una struttura così elementare potrebbe averla disegnata un capomastro o un bambino a scuola – è un occhio in cui si riflette, e lentamente si ritrae, tutta la distanza “naturale” che informa la foto di Strand secondo Berger. La sua cecità (la sua stessa bruttezza) in quanto immagine corrisponde alla sua affidabilità in quanto spazio: è soltanto una casa, un’interruzione nel susseguirsi tendenzialmente infinito di pianure e di colline, un’occlusione nel gioco rarefatto delle superfici che solidifica la visione in un grumo di storicità – a guardarla bene sembra emergere da un vago passato – e che tuttavia asseconda la rarefazione del paesaggio. E’ un dentro che al di fuori proietta un segreto senza prestigio divenuto segno quasi suo malgrado seguendo un’etica frugale che è quella dell’abitare contadino, a un tempo esposto e geloso di se stesso. Ogni relazione che potremmo intessere tra i due soggetti della foto di Strand e la casa alle loro spalle sarebbe soltanto un’illazione.

Ma, data l’epoca in cui sono state scattate le immagini dell’album del fotografo americano, si può credibilmente supporre che chi ha costruito la casa non sia troppo lontano da chi la abita, se addirittura non si identifica con lui. La professionalizzazione dell’edilizia e dell’architettura è un processo lento che, come ricordava Ivan Illich in La convivialità, non si è ancora concluso nel Terzo Mondo e che negli anni ’60 non si era del tutto esaurito nel primo. Ancora  nel 1970, ad esempio,  l’11% delle case del Massachussets erano state costruite da chi le abitava (una percentuale che nel 1945 toccava un terzo del totale). L’abitare è uno dei principali differenziali di uno sviluppo umano ineguale. Ma è anche uno dei campi in cui il progresso non va di pari passo con l’autonomia, bensì con un intreccio di eteronomie che coinvolge la specializzazione professionale dei costruttori e quella dei progettisti, la pianificazione urbanistica e il mercato immobiliare, ondeggiando tra la forma più rigida che presiede alla regolazione edilizia dei centri storici europei e l’informalità più arbitraria che autorizza la nascita delle bidonville.  Quando Illich scriveva che “la maggior parte della gente non si sente a proprio agio se una parte significativa del valore della sua abitazione non è frutto del proprio lavoro”, e proponeva un’utopica architettura conviviale, non si riferiva sicuramente all’Occidente sviluppato (del resto non è qui che risiede “la maggior parte della gente”). Mentre in una parte del mondo gli uomini continuano per necessità a tirare su abitazioni di fortuna utilizzando gli stessi materiali poveri – lamiere, compensati, calcestruzzo – che furoreggiano in certa architettura postmoderna, gli unici che in Occidente si possano permettere il lusso di costruirsi la propria casa sono gli architetti stessi come fece Frank Gehry con la sua House nel 1978. Risultato: la vecchia casa dell’architetto canadese-americano a Santa Monica è finita incorniciata in una struttura metallica incompiuta che la trasforma in una citazione, ammettendo implicitamente che se l’atto di abitare ha ancora un senso in quanto esperienza bisogna cercarlo nel nostro passato. In più,  rispetto alla “graziosa casa rosa” che preesisteva all’angolo tra la Ventiduesima Strada e Washington Avenue, si è aggiunto soltanto un oggetto sulla cui affidabilità come spazio vissuto lo stesso Ghery – a detta di Fredric Jameson – non ha mancato di esprimere fortissimi dubbi.

Assieme a molti altri, anche il valore dell’abitare si è progressivamente volatilizzato: verso l’alto, fino a svaporare nella bolla dei mutui subprime, e verso il basso, sferrando un colpo mortale al welfare abitativo e al “diritto alla casa” che erano l’elemento più saliente dell’idea modernistica di una città, se non radiosa come voleva Le Corbusier, armoniosamente amministrata. La “liquidità” del valore abitativo è non solo disinnescata dalla parte di lavoro e di pensiero che si può eventualmente investire nella costruzione di una casa (che divenuta anch’essa puro valore di scambio è inaccessibile a un ethos così diretto, così primitivo: la maggior parte dei proprietari di case oggi non esita a considerare la rendita immobiliare come il frutto del “lavoro di una vita”) ma perfettamente sintetizzata dalla finanziarizzazione di un mercato in cui comprare e vendere, e probabilmente anche costruire, non sono più in rapporto con la necessità di abitare di nessuno. La casa esprime un bisogno di stabilità, ma lo esprime solo come regressione, come difetto, come ferita di una società e di un’economia che, avendo dichiarato guerra a qualunque forma di stabilizzazione, non sono ideologicamente in grado di soddisfare un simile bisogno e di conseguenza si limitano a mistificarlo. Mettere su casa per chi non ne ha una significa soprattutto conquistare un punto di partenza, una chance in una mobilità sociale che, in positivo o in negativo, assume il cambiamento come parametro: è inteso che non si resterà a lungo nella stessa casa come probabilmente (direbbe Bauman) in nessun’altra relazione impostata sul modello “finché morte non vi separi”. Nel sottosuolo di questa stessa società, l’underclass che non ha casa e la occupa tende a viverla come un rifugio continuamente esposto ai ritorni sismici e alle intemperie della sua precarietà: uno spazio da riempire con le tracce del proprio nomadismo più che un luogo da costruire o in cui ricostruire la propria identità. Ai piani alti in cui soggiorna l’élite globale vige un nomadismo (e un’alienazione) di segno opposto: l’individualismo proprietario vede nella casa la proiezione narcisistica del proprio desiderio di essere e di consumare altrove che nell’economia sempre troppo ristretta (troppo finita) che gli è concessa, lontano dallo spazio che gli altri continuano ad assediare con le loro immagini imperfette, i loro odori, le loro lingue, la loro mortalità. Nella casa vissuta e progettata come roccaforte privilegiata della privacy il confine tra un interno privato e un esterno sociale finisce col perdere ogni possibilità di essere articolato in una prossimità. Alla segregazione esterna della gate community, il condominio fortificato e telesorvegliato dove il ricco si isola dalla città che lo circonda – respingendone la spazialità faticosa e troppo umana – risponde un interno delocalizzato dall’estensione delle tecnologie che fa coincidere il minimo della comunicazione corporea con il massimo della comunicazione virtuale. La casa mediterranea che a Napoli sorprendeva Walter Benjamin (per l’identica ragione per cui affascinava Camus a Orano), tendeva a prolungarsi e quasi a dileguarsi nella civiltà vociante della strada. Più che annullare la distanza tra il dentro e il fuori, la risolveva in una continuità simile a quella che unisce  il corpo e l’ombra. La dimora iperprotetta interrompe ogni continuità con lo spazio urbano, ostenta la propria extraterritorialità, non abita alcuna strada – e ben presto forse alcuna città e alcun paese – ma è progettata come un’intelligenza capace di comunicare, da élite a élite, con i punti più lontani del pianeta. In ogni caso, progettata per non essere qui dove la gravità terrestre si ostina a trattenerla, ma in perenne transito tra le immagini che si danno il cambio sulle sue superfici (proprio come Bradbury l’aveva immaginata in Farheneit 451): casa-medium, casa-schermo che introietta il lontano e allontana il vicino, casa-lager segregata nella cattiva infinità del globale al lato opposto di una Città finita dove la penuria di alloggi respinge gli uomini uno sull’altro.