Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 19 Del 12 - 5 - 2008 |
La coscienza rimossa |
I fatti e le storie che non abbiamo voluto scrivere in “70volteSud” di Mana Chuma Teatro |
Mariateresa Surianello |
Ci sono storie, in Italia, dimenticate, soffocate, cancellate. Interi pezzi della nostra storia recente sono oggetto di un rimosso collettivo, indotto da settori strategici della società, dai suoi poteri chiari e da quelli occulti. Pagine di cronaca non scritte, oppure scritte e non lette. Parole che attendono di essere pronunciate, gridate, ascoltate, per conoscere, capire, trasmettere alle nuove generazioni l’esperienza degli errori commessi. Emblematico è il processo di rimozione che si è sviluppato intorno ai fatti tragici di Reggio Calabria del 1970, a partire dalla stessa popolazione reggina che ancora oggi con grande disagio vi si confronta. Su quelle giornate di sangue e barricate che portano il marchio fascista dei “Boia chi molla” sta lavorando da diversi anni Mana Chuma Teatro, in stretto rapporto con Fabio Cuzzola, autore del libro Reggio 1970 – Storie e memorie della rivolta (Donzelli Editore, 2007). E proprio da questo testo di raccordo dei molteplici intrecci che determinarono gli eventi scoppiati nell’estate del ’70, e dal precedente volume di Cuzzola, Cinque anarchici del Sud (Città del Sole Edizioni, 2001), Mana Chuma ha tratto gli elementi storici per costruire ‘70volteSud, lo spettacolo messo in scena per la prima volta a Reggio Calabria, ora, nell’ambito della manifestazione organizzata dalla compagnia, per fare luce e riflettere su quegli oscuri accadimenti di trentotto anni fa. Articolata tra il Teatro Comunale Francesco Cilea e il Castello Aragonese, Reggio ’70 - I giorni della rabbia e della passione ha raccolto, dal 5 all’11 maggio, diversi documenti e testimonianze, che fanno emergere l’iniziale spontaneismo della rivolta in quel 14 luglio del ’70, dopo la notizia dell’assegnazione del capoluogo regionale a Catanzaro, e dell’Università a Cosenza, barattati da Roma con la promessa di un nuovo polo industriale (lo scempio di Gioia Tauro con l’abbattimento di ettari di agrumeti per lunghi anni ha mantenuto aperta la piaga). Il popolo, decimato dalle migrazioni nei due decenni precedenti per il tradimento della politica del dopo-guerra, non accetta questa nuova imposizione e si lancia in una disperata ricerca di identità. I partiti della sinistra non colgono il reale stato di abbandono che la città dello Stretto e la sua gente sta vivendo e lasciano nelle mani della destra eversiva la protesta. E’ così che Reggio Calabria diventa palcoscenico ideale per sperimentare manipolazioni della piazza e canalizzare legittime richieste (lavoro e istruzione) verso un campanilismo cieco, violento e senza futuro, come poi la storia ha dimostrato con questo quarantennio di silenzio. Attiva dal 1998, Mana Chuma è una delle rare formazioni teatrali reggine (e calabresi, in generale), un gruppo di resistenti che ha scelto di lavorare in quel territorio poco ricettivo per un teatro che non sia commerciale e di nomi noti, ma che al contrario cerca un senso nell’utilizzo dei linguaggi per interrogarsi sulle necessità del presente. Arrivare al Cilea è una vera conquista e ‘70volteSud emoziona anche per questo background. Scritto a quattro mani da Salvatore Arena e Massimo Barilla (le due anime di Mana Chuma, il primo, interprete, e il secondo, regista), lo spettacolo si fa nel corpo scenico dell’attore, che si lancia spesso in una polifonia di voci, lasciando comparire la coralità dei vissuti negli eventi narrati. Piccoli fatti ordinari, su un treno che corre verso il deragliamento – è la strage di Gioia Tauro, 22 luglio 1970, l’ennesima bomba fascista, le indagini della Magistratura e i pentiti ora lo confermano definitivamente, anche nel Processo Olimpia. E poi la storia dei cinque ventenni anarchici, che molto avevano scoperto già allora su quella bomba, tutti morti in un incidente stradale provocato da un camion ricollegabile a Junio Valerio Borghese, assiduo frequentatore della città reggina alla vigilia dei moti. Le musiche originali di Luigi Polimeni accompagnano il racconto monologante, sostenendone l’accelerazione del ritmo o riducendo la corsa della parola che nel suo divenire dialettale si trasforma in puro suono. Nella luminosa oscurità disegnata da Beatrice Ficalbi, i pochi elementi scenografici – una sedia, una scaletta – lasciano trionfare sul fondale le tracce pittoriche di Dario Andreoli e Claudio Russo e le proiezioni video (di Felice D’Agostino, Arturo Lavorato, Caterina Gueli) completano il quadro poetico di questo spettacolo delicato e durissimo nella denuncia delle verità storiche. Del resto la base di partenza è il volume di Fabio Cuzzola che ricostruisce con dovizia di particolari le trame di quegli anni e le commistioni tra apparati politici della destra parlamentare, il Msi di Giorgio Almirante e le formazioni eversive, la cosiddetta politica del doppio binario, confermata dalla Magistratura. E particolarmente chiarificatore, nel corso del convegno tenutosi nel foyer del Cilea (il 9 maggio), è apparso l’intervento di Vincenzo Macrì, magistrato della Direzione Nazionale Antimafia, che ha sollecitato uno sguardo più aperto al contesto di quegli anni, inserendo la rivolta di Reggio in una dimensione nazionale (e internazionale), all’interno della strategia della tensione messa in atto dai gruppi neo fascisti in accordo con la ‘ndrangheta che proprio allora stava sbarcando in città, abbandonando il provincialismo agrario che l’aveva fino a quel momento caratterizzata. Non si tratta di una nota di colore la circostanza riportata da Macrì che vede, il 26 ottobre del ’69, all’indomani del comizio di Junio Valerio Borghese a Reggio, un centinaio di capi ‘ndrangheta discutere – in una prospettiva di separatismo – se appoggiare il colpo di stato che il principe, già comandante della X-Mas, stava progettando (il tentato golpe sarà tra il 7 e l’8 dicembre di quell’anno, la strage di Piazza Fontana si consumerà solo quattro giorni dopo, il 12 dicembre). 2500 uomini della ‘ndrangheta erano pronti al colpo di stato, il contrordine lo diede Felice Genoese Zerbi, marchese e mafioso proprietario terriero nella piana di Gioia Tauro, e protagonista delle barricate di Reggio. Date e nomi, ovviamente, Macrì li attinge dalle inchieste, dai processi e dai pentiti. «Sono passati trentotto anni – dice il magistrato – possiamo ragionare». Per ragionare, allora serve anche la mostra che Mana Chuma ha proposto al Castello Aragonese con le foto scattate da Angelo Casile in giro per l’Europa del ‘68, uno dei cinque anarchici ventenni morti “misteriosamente”. Dipingeva anche, Casile, e i suoi quadri sono esposti in un’altra sala, che precede la serie di immagini e un video, che ricostruiscono gli scontri di piazza, le barricate, i morti. I volti dei passanti, le donne, giovani e vecchie con le buste della spesa. E i ragazzini che lanciano pietre contro la polizia e la sua «inusitata violenza iniziale» – scrive Cuzzola. Contro lo Stato che non c’era. Prima che Ciccio Franco e i “Boia chi molla” guadagnassero il consenso. Solo due anni dopo, nell’ottobre del ’72, a Reggio Calabria arrivarono i treni per la grande manifestazione democratica (li ricorda Giovanna Marini con una splendida canzone). La rivolta di Reggio, oggi ancora, sembra non aver insegnato nulla. In libreria: Fabio Cuzzola, Reggio 1970 – Storie e memorie della rivolta, 2007, Donzelli Editore, XII-206 pagine, 26,00 euro |