Anno 1 Numero 19 Del 12 - 5 - 2008
Guai ai vinti
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Era la fine degli anni ’70 e loro erano bambini. Camminavano in fila indiana per i corridoi di una istituzione totale che aveva al contempo le sembianze della scuola, della catena di montaggio e del lager. Alcuni di loro venivano calmati e omologati con maschere e uniformi senza carattere, altri finivano direttamente in un imponente tritacarne. Chi sono? Qualcuno ci riconoscerebbe l’attuale generazione degli ultratrentenni in Italia. Chi invece conosce un po’ il rock rivedrà in questi accenni le immagini del video Another brick in the Wall dei Pink Floyd. Ma anche la prima ipotesi poteva dirsi assai credibile.
A guardarla bene l’«azienda Italia» - per dirla in gergo liberal – non è troppo dissimile dal campo di concentramento “fordiano” presentato dalla band inglese, in cui la morte è parte integrante della catena produttiva. Se si osserva la cronaca con una certa continuità e con una minima capacità a fare collegamenti, risulta infatti evidente come parte sostanziale del prodotto interno nazionale sia legato alla consapevole, pianificata, produzione di cadaveri made in Italy.

I più validi casi letterari, cinematografici, teatrali, televisivi di questo decennio ci raccontano esattamente una nuova immagine del Bel Paese. Storie di fabbriche che avvelenano i propri dipendenti, storie di “protezioni” che non proteggono ma minacciano, storie di sviluppo che devasta irreversibilmente il suo stesso territorio (ne è esempio il bellissimo documentario Biutiful Cauntri di cui ha parlato Pontiggia nel secondo numero di questa rivista).
Se è vero che negli ultimi dieci anni non abbiamo fatto altro che parlare di noi, di cosa siamo, allora è anche vero che da anni continuiamo a fare impunemente outing tirando fuori uno per uno i nostri scheletri dall’armadio senza che però la cosa vada oltre il parlarsi addosso. Talvolta siamo ricorsi a vecchi scheletri con nome e cognome come Peppino Impastato o Aldo Moro, morto da trent'anni e mai dimenticato dall’ossessiva cronaca artistica che ha continuato a riprodurre centinaia di volte - con facce sempre diverse - l’immagine del sequestrato sotto l’insegna delle Br. Ma per lo più abbiamo preso atto che la nostra – per dirla con Brecht – è una terra che non ha più bisogno di eroi, e gli scheletri negli armadi hanno iniziato a essere presi a mucchi, senza distinzione, senza esemplarità. Come il Nunzio – anonimo operaio a nero nella provincia siciliana lentamente ucciso dalle esalazioni chimiche - che rese celebre la coppia teatrale Scimone-Sframeli, vincitrice del premio Opera Prima alla Mostra del Cinema di Venezia qualche anno dopo con lo stesso soggetto portato in pellicola (Due amici).

Attraverso questi scheletri l’Italia si è impudicamente raccontata in questi anni, lavando i propri panni sporchi nella pubblica piazza. Attraverso queste storie, alcune vere, alcune presunte vere, si è autodenunciata finendo a quel punto per marciarci costruendosi, con un vago senso di resa, una nuova identità, consapevole della propria coscienza sporca. Nell’ultima fototessera fatta per il rinnovo periodico del passaporto c’è allora disegnato un volto ambiguo, in cui il buono sembra inscindibile dal cattivo, che a sua volta si mostra senza la preoccupazione di poter essere debellato, tutt’al più scoperto, come si scoprono senza scandalo oggi le parti intime, velatamente rivelate magari da un abito dell’alta moda made in Italy. E tra le storie che si raccontano c’è appunto la “parabola” del sarto e del vestito di Angelina Jolie nel best seller di Saviano. Ed è in esempi come questo che si svela come la tara, il difetto, la stortura, sembra essere parte stessa del processo produttivo e talvolta dell’orgoglio nazionale. Il miracolo economico del Nord Est è il miracolo economico delle ecomafie in Campania, la ricchezza degli uni è inscindibile da quella degli altri, la bella vita di questi è inscindibile dalla morte di tutti. Il made in Italy, come nelle migliori boutique di Rodeo Drive, si paga a caro prezzo.

E’ una storia mille volte narrata che decidiamo di raccontare anche noi una volta di più, trascinati da una settimana di fuoco, in cui a Cannes si presentano davanti agli occhi del mondo due film che forse si toccano, e che sono un tutt’uno con la nostra identità. La vicenda di Gomorra diventata un film di Matteo Garrone, e quella di Giulio Andreotti, che ispira Il divo di Paolo Sorrentino. Mentre contemporaneamente, a Parigi la compagnia di teatro Babbaluck sceglie di portare uno dei tanti possibili souvenir d’Italie prendendo a prestito un altro scheletro, quello di Pier Paolo Pasolini, facendolo con leggerezza, senza dover scavare, perché il cadavere del poeta è a tutt’oggi insepolto, come quello tragico di Polinice, e lo sguardo dei suoi occhi, non occlusi dalla terra, immobile, continua a lambire i contorni dei paesaggi che cambiano e delle sagome che passano.

E proprio da questo bizzarro affresco, paradossalmente iperrealista, che Sergio Longobardi presenterà dal 26 al 31 maggio al Théatre Studio Alfortville, arriva una specie di segnale di vita, un segno di rivolta, una faccia impudente, come quella che grida “We don’t need no education, we don’t need no thought control!” nel video dei Pink Floyd. Italia mia (questo il titolo dell’opera) sceglie di non raccontare, ma di testimoniare questo Paese con il suo linguaggio presente, spogliato dalle vestigia dell’artefazione, recuperando il poco e il niente, il vuoto degli schemi telesociali su cui si fonda la nostra attuale comunità e si espone, come una nudità gracile agli occhi di chi guarda. Eppure in questo paesaggio alla deriva (tanto quanto il titolo del libro appena uscito di Stella e Rizzo), si scopre appunto una titanica e disperata volontà di riscatto che è appunto dei poeti. Lo si intravede nel rapporto dialettico, ormai imprescindibile che lo spettacolo di Babbaluck stabilisce con la televisione in cui si ritrova tutta la vivida sensazione delle immagini indimenticabili del Pasolini del piccolo schermo, nelle quali si può sempre sentire nitidamente quella invisibile violenza e ferocia come di quando si vede l’uomo lottare con il leone: la testa di Pasolini, impavida e necessariamente perdente, dentro la bocca quadrata del televisore domestico.

I poeti continuano a non starci, e a scrivere cartoline dall’Italia che viaggiano a colpi di milioni di copie e fanno assai più male dei titolacci dell’Economist per cui la politica neppure più s’indigna. Queste istantanee sono l’album di famiglia di quella coscienza sporca di cui oggi siamo disinvolti portatori, sono parte di quella sifilide ibseniana da cui siamo tarati, sono le immagini catturate dagli occhi di un serpente che divora se stesso partendo dalla coda. Immagini prese da molto vicino che continuano a gridare come voci in un deserto molto popolato.