Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 20 Del 19 - 5 - 2008 |
Con gli occhi chiusi |
Note a margine de "L'arte dell’accecamento" di Paul Virilio |
Attilio Scarpellini |
- Cosa vedi? - Vedo tutto: la moschea, la torre della televisione, la caserma, la scuola. Sparo sulla caserma? - No, spara sulla moschea. - Sparo sulla televisione? - No, spara sulla scuola. - Ora escono dalla città, si incamminano per la strada dei monti. Sembrano una lunga file di formiche… - Bene. Adesso comincia il tiro alla formica… (Conversazione radio tra Ratko Mladic e uno dei suoi sniper. Bosnia 1995) “Obbedire a occhi chiusi è l’inizio del panico”: aprendo L’arte dell’accecamento, il suo ultimo libro (o forse sarebbe meglio dire l’ultima stazione nella sua via crucis attraverso la derealizzazione del mondo) Paul Virilio torna sui sentieri interrotti del pensiero fenomenologico di Edmund Husserl e Maurice Merleau-Ponty. Era quest’ultimo che nel 1953, pochi anni prima di una morte prematura, indicava nell’ottundimento della vista la pratica ideologica più caratteristica di un mondo in cui “il diniego e le tetre passioni prendono il posto delle certezze”. Quanto ci separa dall’epoca in cui l’autore de L’occhio e lo spirito pronunciava questa icastica sentenza, evidentemente rivolta a una politica di dissuasione che, per usare le parole di Albert Camus (l’ altro grande inascoltato profeta di quegli anni di cui Virilio richiama in vita la parola) aveva trasformato la paura in una tecnica? Molto, nelle apparenze: anche il minimo dettaglio della vita è ormai virtualmente illuminato dallo sguardo globale di quello che Virilio definisce “l’illuminismo dei media”, occhio insonne e senza palpebra perennemente spalancato sul mondo. Poco, invece, nella sostanza dei sentimenti che agitano la profondità dell’uomo: la promessa di una distruzione reciproca che era il nocciolo avvelenato dell’equilibrio bipolare, non si è affatto dissolta dopo il suo crollo, si è disseminata in un panico globale che è la vera condizione della nostra attuale percezione dell’altro. Gli occhi che il “diniego e le tetre passioni” dell’ideologia cucivano con il filo spesso del misconoscimento come condizione di una reciprocità impossibile (perché spalancarli improvvisamente nell’altro avrebbe significato semplicemente distruggerlo e distruggere simultaneamente se stessi) non si sono schiusi liberando lo sguardo in quella stretta implicazione tra l’uomo e il mondo (e tra l’uomo e il suo prossimo) che la fenomenologia chiamava “empatia”. Si sono chiusi ulteriormente, trincerati dall’orizzonte a un tempo ristretto e infinito (forse nel senso di quella che Hegel chiamava “cattiva infinità”) delimitato dallo schermo dei media. In questo interno che assorbe (e sostituisce) ogni esterno, il mondo si riduce a uno spazio portatile che il soggetto apre e chiude a piacimento, indeciso se subire la traumatica imprevedibilità che i suoi input visivi gli comunicano, o se eluderle nella distrazione di una manifestazione esclusivamente immaginaria, dove ogni sequenza scaccia la precedente e si appresta a sfumare nella successiva. In entrambi i casi, del resto, è la stessa oscillazione tra la letargia e il risveglio traumatico a denunciare l’inerzia di uno spettatore sempre più impegnato, dice Virilio, a “vedere senza andare a vedere” e a “percepire senza esserci veramente”. Con la teleobbiettività “non soltanto i nostri occhi sono chiusi dallo schermo catodico, ma soprattutto non cerchiamo più di guardare, di vedere attorno e neppure davanti a noi, ma unicamente oltre l’orizzonte delle apparenze oggettive.” Drastica riduzione delle distanze fisiche che mentre temporalizza lo spazio, assorbendo il “qui” nell’ “ora” – e volatilizzando la durata nel “tempo reale” - conduce a un’evaporazione della percezione dell’altro e del paesaggio in cui è inserito che le tecnologie di guerra avevano non solo ampiamente preannunciato ma che finora, a dispetto di tutti i progressi, non hanno mai smentito. Bombardare una città, da Guernica a Grozny, comporta un accecamento preventivo che consiste nell’alterare la percezione de visu del suo paesaggio importando su di esso il punto di vista del deserto. Basta guardare una delle istantanee che Paul Tibbets, il colonnello alla guida dell’Enola Gay, scattò su Hiroshima per rendersi conto che ogni annientamento su vasta scala comincia dalla visualizzazione del nulla che crea e da quel movimento di neutralizzazione sensoriale della violenza che già Gunther Anders (guarda caso un altro allievo di Husserl) aveva beffardamente battezzato “teleomicidio”. Oggi che anche il terrorismo – da sempre educato nello specchio delle guerre – scala l’alto dei cieli e può finalmente competere con i grandi numeri della distruzione aeropolitica un tempo riservata agli Stati, possiamo finalmente celebrare l’avvento di quello sguardo smisurato che sulle cime montuose dell’Engandina portava Nietzsche ad esclamare estaticamente: “A tremila piedi dal genere umano si ride di tutte le tragedie, finte e vere!” Senza dimenticare che, appena scesi terra terra, le “tetre passioni” – magari istigate dall’emozianalismo dei mezzi di comunicazione - non hanno smesso di esercitare la loro abbagliante fascinazione, il loro potere di accecamento sui singoli e sui popoli. Come se due barbarie si confrontassero: una che per sfuggire ciò che è vicino guarda troppo lontano (oltre l’orizzonte di quelle apparenze in cui il soggetto e l’oggetto condividono lo spazio di una rivelazione reciproca, “empatica” come direbbe Husserl, se non “auratica” come direbbe Benjamin); l’altra che guardando troppo vicino, per esorcizzare un eccesso di prossimità, sfonda la linea di confine con il corpo dell’altro e lo violenta. Quando il devastatore di campi rom, l’autore di pogrom improvvisati o il giustiziere di diversi e di perversi avranno scaricato su Youtube il video della loro ultima impresa, la divagazione dell’immagine “survisuale” e l’intensità dell’emozione iperreale, il troppo lontano e il troppo vicino, si salderanno: lo shock di cui si nutre il teppista accecato dall’odio è la riserva di sangue che alimenta la noia del voyeur, sempre proteso ad “attendere l’inatteso” (e non è forse questa la lezione inconfessata del dolorismo di certa arte contemporanea: ritrovare attraverso la deformazione e la ferita la realtà di un corpo che proprio l’assenza di segno e di misura strappa alla possibilità di rivelarsi, come un tempo nella pittura?). Ma entrambi gli sguardi continueranno a non vedere nulla, si limiteranno a trapassare l’alterità dell’altro: qui sovrapponendole un’immagine persecutoria, là stemperandone la singolarità nella fluttuante ubiquità delle immagini, tutte ugualmente prive di sguardo. In libreria: Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, traduzione italiana di Rossella Pezzo, Raffaello Cortina, Milano 2007, pp. 88, Euro 8,50. In libreria: Gunther Anders, L’uomo è antiquato, Bollati-Boringhieri 2003. L’espressione “educato nello specchio delle guerre” è di André Malraux (La tentazione dell’Occidente). |