Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 20 Del 19 - 5 - 2008 |
Un volto dietro la maschera di mille volti |
L’identità del singolo mediata dalle immagini condivise in "Corpo a Corpo" di Daria Deflorian |
Mariateresa Surianello |
Quando si entra nella sala teatro del Rialto, Alessandra Cristiani sta fingendo un riscaldamento muscolare, cammina, respira, si tira. Un piccolo stretching che prelude il movimento della danza – immaginiamo. E invece si infila dei guantoni da box e inizia a lanciare cazzotti nel vuoto, in un solitario round che sembra preludere il paesaggio interiore di quel personaggio fasciato in un elegante tubino nero. Siamo nella scena di Corpo a corpo, creata da Daria Deflorian e “condivisa” con Alessandra Cristiani, seconda esposizione di un progetto proposto in una prima versione nel 2006 (a Roma, al Teatro India), che ora è stato accolto al Rialtosantambrogio, nella terza edizione della rassegna Body Shot – corpo e movimento (per tre sere, dal 9 all’11 maggio). Spettacolo trasparente, di una trasparenza reticolare, costituita da una miriade di intrecci e riferimenti testuali che rilanciano continuamente il loro senso verso la platea. Anzi è lì che sembra trovino compiutezza. In assenza di implicazioni sentimentali e psicologiche, la sequenza di scene è fredda, di quella freddezza che richiede la partecipazione attiva dello spettatore, il suo coinvolgimento intellettuale e razionale, per procedere, prima, al recupero dei materiali e, poi, attraverso la carne viva della performer, entrare nei diversi livelli del lavoro. Un primo livello, non del tutto scontato, si raggiunge subito, siamo a teatro e Alessandra Cristiani si mostra nel suo corpo scenico, in quel momento e per il tempo stabilito dalla serie di azioni “programmate” che possono toccare la sensibilità dello spettatore e trasformarsi in intima emozione. Il secondo livello arriva con l’apparato testuale - però non c’è storia, né sviluppo narrativo - immesso nello spettacolo attraverso il sonoro filmico di eccellenze cinematografiche. Il terzo livello è quello del distacco di Daria Deflorian dalla sua stessa opera. E’ come se la regista, con l’attrice Cristiani, si trovassero nell’impossibilità di andare oltre la complessità oggettiva dimostrata in questo Corpo a corpo. Accade lo stesso con Persona, la pellicola di Ingmar Bergman, da cui sono attinte le parole che risuonano in scena. Ogni spettatore scaverà in solitudine nelle proprie memorie e lotterà con i fantasmi del suo passato e del suo presente. Lo spazio del Rialto è completamente vuoto e sulla parete di fondo si leggono brani di testo presi in prestito da La maschera della scimmia, il romanzo in versi dell’australiana Dorothy Porter, da cui è stato tratto nel 2000 l’omonimo film di Samantha Lang. A parte lo snodo lesbo del romanzo di Porter, nello spettacolo la funzione di queste parole sembra calibrata sull’opposizione della doppia natura umana, sulla differenza di genere, sullo scontro tra maschile e femminile. E quindi sulla violenza che tale incontro può produrre con estrema naturalezza. Gli innesti da Cuore selvaggio di David Lynch forse portano in questa direzione e anche le repentine cadute a terra di Alessandra Cristiani giocano a rendere ordinaria anche la violenza più estrema. E i frammenti sonori da La sera della prima di John Cassavetes servono ad acuminare il già tagliente atto di sopraffazione e a circoscriverlo nel recinto delle banalità consumate con indifferenza. Con Cinque pezzi facili, film di Bob Rafelson del 1970, Corpo a corpo sembra giungere alla quadratura del cerchio, sia per la sua sequenza anti-narrativa che rimanda a quella sceneggiatura per quadri, sia per la serie di tematiche apparse sulla scena riprodotte o per mezzo di Alessandra Cristiani. L’impossibilità di essere normale (che era il titolo di un altro film del 1970, di Richard Rush, con Elliot Gould) di Jack Nicholson diventa motivo di abbandono della sua condizione sociale agiata che però lo ha già plasmato, impedendogli una vera critica del sistema rifiutato. E, da borghese, si ritrova in situazioni involute: un sentire l’altro da sé sempre disturbato da quella sua classe di appartenenza. E neppure riesce ad arrivare in Alaska, al contrario del protagonista di In to the wild (l’ultimo film di Sean Penn), che lì termina i suoi giorni. Infliggendo a se stesso e agli altri che restano la violenza ultima. Alessandra Cristiani nel finale si spoglia del suo abito lungo laminato, resta col volto coperto da una maschera di scimmia e con una gestualità sprezzante si rivolge direttamente agli spettatori, come a chiedere cosa si stia aspettando ancora. Dietro la maschera c’è un velo nero. Lo spettacolo è finito. |