Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21 Del 23 - 5 - 2008 |
Una finestra possibile sull’infinito |
Premesse per un vademecum estemporaneo curato da “La differenza” |
Attilio Scarpellini |
Nel 1965, Michael Fried, uno dei critici di punta del modernismo americano, cercava di metter fuori gioco la scultura minimalista di Donald Judd e di Toni Smith affermando che la sua presunta adesione all’oggettività altro non era se non il pretesto per “un nuovo genere di teatro” e affrettandosi ad aggiungere che “il teatro è ora la negazione dell’arte”. Il teatro, per essere più esatti, rappresentava il permanere di una tentazione espressiva che corrompeva e pervertiva la purezza formale del segno artistico contemporaneo spingendolo verso una nuova caduta: l’ennesima caduta dall’autoreferenzialità di un arte senza più mondo nell’antropomorfismo di un gesto che, per quanto si proponesse di essere letterale e svuotato, si ostinava a esporsi e a parlare al mondo. Fried, in realtà, si sentiva sgradevolmente sfidato dall’illusionismo emotivo dei grandi oggetti semplici della scultura minimalista che imponevano allo spettatore la loro presenza silenziosa, costringendolo nella sensazione contraddittoria di essere tenuto a distanza e invaso nello stesso tempo… Come accade per molte definizioni sommariamente dispregiative, anche quella del critico americano si comporta come una confessione ritorta, ma è il caso di far tesoro della verità profonda che contiene, proprio rispetto al teatro: ogni quanto l’arte torna a vibrare, a inclinarsi in una rischiosa caduta nell’umano, il teatro risorge nella sua contraddittorietà formale di arte che attraverso la presenza temporalizza lo spazio e “fa parlare” il silenzio. E questa caduta costituisce un punto di massima fragilità e di massima resistenza: fragilità di un’estetica spuria – dai tempi di Fried le cose non sono granché cambiate: oggi saranno i fanatici della narrazione filmica o della simulazione visiva a dirvi che il teatro “è ora la negazione dello spettacolo” – e resistenza di un’apertura sull’alterità del mondo (il permanere di quello “stato di pericolo” che secondo Artaud occupava la scena e faceva del teatro un gesto radicalmente politico). Teatri di Vetro non è dunque un modo di dire (sulla scena niente si fa tanto per dire) e neanche una definizione particolarmente azzeccata per incartare una rassegna di spettacoli autoprodotti: è un modo di essere che nell’attuale, generalizzata crisi della presenza in situ e de visu del corpo dell’arte, musealizzato dalla cultura e/o delocalizzato dallo spettacolo, aggrava la propria precarietà – avvicinandosi sempre di più al suo virtuale punto di rottura – nel mentre moltiplica la luce scintillante di una trasparenza infrangibile, debole e forte a seconda che lo si guardi dall’alto (come “sistema” e per cominciare come economia) o dal basso (come evento unico di una singolarità), dal punto di vista del consenso che produce o da quello della necessità artistica che esprime. Nel mainstream di una contemporaneità dove l’immagine è diventata veramente, per usare un’illuminante espressione di Debord, “la forma finale della reificazione”, il teatro è il luogo e l’atto di un’immagine critica, di una dialettica animosamente “miscontemporanea”, persino nel suo essere l’eccezione di una regola che da tempo ha smesso di funzionare: nel suo essere l’arte, ma senza il mercato, nel suo mantenere un’ insopprimibile vocazione pubblica, ma senza più lo stato o se si vuole nel suo essere quanto di più espressivo si continui a produrre ai margini del sistema delle comunicazioni di massa e quanto di più comunicativo esista ancora al di fuori di esso. Il teatro è un paradosso. Ma solo agendo fino in fondo questo paradosso si può cominciare a comprendere che la cosiddetta scena indipendente, lungi dall’essere un fenomeno episodico, il margine creativo che vivifica non si bene quale centro di un sistema mai troppo individuato (fin troppo stancamente individuato), una specie di terzo settore ambiguamente sospeso tra il teatro del diritto e quello del mercato, segna anzitutto il riemergere della necessità poetica dell’atto teatrale. Quelli che nella sua mappa del teatro indipendente romano Graziano Graziani definisce “territori urlanti”, le duecento e passa compagnie che costituiscono il bacino e la massa d’urto di Teatri di Vetro, sono sì una realtà plurima e irriducibile a un pensiero unico dell’estetica teatrale (ivi compreso quello che passa per la distinzione sempre più labile tra convenzione e ricerca). Ma non di meno sono accomunati dalla convinzione che il linguaggio della scena – sia esso performativo o ancora registico, visuale o verbale, narrativo o anti-narrativo – sia non solo il più adatto a raccontare il presente, ma in qualche modo l’unico in grado di restituirgli un peso al di qua o al di là delle “forme reificate” (cioè ideologiche) in cui la sua percezione è imprigionata. E il peso del teatro è sempre quello di una certa organicità, di una realtà trasformata attraverso la vita, di un’incarnazione della forma: “poesia per i sensi” come diceva, ancora, Artaud. Prima di definire una precarietà economica, un’incertezza giuridica o una debolezza organizzativa, l’indipendenza di cui si vantano questi teatri – che non a caso è spesso la prima qualità che viene loro contestata – è inseparabile da una petizione di indipendenza artistica che agisce il paradosso del teatro là dove esso è nato e dove continua ad avere un senso: nel luogo di una comunità, nella possibilità di aprire (o di riaprire) uno spazio pubblico non selezionato, nell’evento di una cittadinanza anche minima. “Posso prendere qualunque spazio – come ha scritto a suo tempo Peter Brook – e chiamarlo teatro”: alcune di queste realtà hanno praticato l’occupazione come restituzione di spazi sociali e insieme come gesto di appropriazione artistica. Piaccia o non piaccia è la necessità stessa di questo gesto istitutivo che, almeno in una genealogia del bisogno, viene prima dello stato e prima del mercato. E sia detto per inciso, il vitale interscambio tra il teatro indipendente e il territorio è l’esatto contrario della superstizione territoriale come viene attualmente intesa dall’economia ristretta di un comunitarismo nostalgico ansoioso di recintare la realtà: lo spazio circoscritto dal teatro, notoriamente, non è chiuso, ma infinito... |