Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21a Del 25 - 5 - 2008 |
Same old shit! |
“Oscar dolls” di Stefano Taiuti, incendiaria performance radicalmente contemporanea |
Gian Maria Tosatti |
Il filo del discorso è estremamente lineare. La metafora non è più che letterale. L’esempio decide di essere banale per non essere più nemmeno un esempio, ma appunto un piano mimetico confuso con la realtà, forse, addirittura, un piano della realtà. E poi è scorretto. Come la pornografia o come le favole dei Grimm. Non c’è filtro. Tutto è esplicito. Ma tutto è incontestabilmente naturale, come la pornografia, come l’odio omicida che non si nega nemmeno alle eroine nelle favole dei Grimm. Così si presenta Oscar Dolls, opera di Stefano Taiuti alias Zeitgeist, vincitrice del premio della giuria al Tuttoteatro.com - Dante Cappelletti di quest’anno. In scena c’è lui solo, con una maschera da maiale che rimanda immediatamente ai cartoni animati americani degli anni ’40, spesso di matrice politica, in cui figure antropomorfe, dai tratti spiccatamente volgari o inquietanti, venivano usate come simulacri terrorizzanti a scopi efficacemente ideologici. Taiuti ne è consapevole tanto che il gioco di rimandi ad un certo modo fumettistico di muoversi è continuamente ripreso nella danza. Ma stavolta, dopo oltre sessant’anni non c’è più nessuno da dissuadere, da spaventare. Un linguaggio che in passato poteva essere iperbolica base di monito oggi risulta lo strumento più fedele per descrivere il senso di schifo insopportabile, di bassezza, di sguaiatezza, che pervade la realtà. Oscar il porco stupra in scena odiose bambolette lolite che canticchiano motivetti e dicono “I love you”. Lo fa nel perimetro cieco della scena, che non vede oltre se stesso. Non c’è altro, non c’è finalità alcuna. Ci sono solo i culi minuscoli di questi ultimi giocattoli per il divertimento sessuale che si muovono a ritmo di filastrocche infantili. La sproporzione con le dimensioni di Oscar è spaventosa e l’atto sessuale mimato è una conclamata mostruosità. Ma non è un’iperbole. La mimica ammiccante di Oscar, il suo gioco di allusioni che non pretende nemmeno di essere velato, ma si squaderna in tutta la sua compiutezza e addirittura nella sua ripetitività è lo strumento per dire che non c’è un sottinteso, non c’è un messaggio. Le cose sono esattamente quello che sono. E se tutto sembra riduttivamente abbassato ad un automatismo autistico di sfoghi erotici è solo perché effettivamente sono queste pulsioni primitive e autodistruttive (l’orgasmo è psicologicamente la replica della morte) a guidare l’attuale classe produttiva, la cosiddetta società della velocità, quella che in questi ultimi due giorni a “botte di cocaina” ha fatto secchi a Roma due ragazzi per la strada e pestato a bastonate un barista del Bangladesh. Oscar non c’entra niente con tutto questo? Sembra più un pedofilo di un ultrà o di un fascista armato? Ma che cos’è la pedofilia se non una forma di sessualità virata al contemporaneo, uno slancio a conquistare una nuova fetta di mercato, ad alzare la posta, a dare la sgomitata, confondendo l’oggetto col desiderio. Ed è anche quanto accade nel video che costituisce la seconda traccia di questo spettacolo. Nel doppio schermo che allude alla infinta moltiplicabilità del soggetto, una donna si masturba con delle scarpe. Non è un’analogia, è un atto di puro feticismo alla portata di tutti. Quando anche questo finisce il maiale dalle sembianze umane (o viceversa) si alza e ascende ad una gloria a diecimila decibel. Le fanfare celesti strombazzato ad alto volume, sono stordenti, confondono il sacro col profano, la vittoria con la salvezza. Oscar indossa un’uniforme (un completo), ossia una pelle capace di tenere in piedi uno scheletro vacillante come ricorda Hermann Broch nei Sonnambuli (Oscar è un discendente direttissimo del protagonista Huguenau) o anche più di recente Patrick McGrath nel suo Spider. Sugli schermi appare “Vota Oscar”, che è come dire: “Votami anche se sono stato trovato con due puttane in overdose”, è come dire: “Votami anche se sono condannato per mafia”. Non è osceno. E’ in scena. E più odiosa di Oscar è proprio la scritta che invita al suo voto, perché squarcia il velo della dimensione privata in cui ognuno è libero di essere la bestia che è per riversarsi come un’infezione nella sfera pubblica dagli oblò dei nostri reality-tv-set. Per poter sgomitare una volta di più, conquistare un’ulteriore fetta di mercato, deflorare l’ultima verginità. In questa epopea della durata di mezz’ora, che ha il coraggio di volersi radicalmente contemporanea, declinando la fascinazione lirica dell’arte per essere primitiva così come voleva Basquiat quando si firmava SAMO (ovvero Same Old Shit), non è Oscar a fare il verso alla realtà, ma la realtà a fare il verso ad Oscar. E’ proprio questo il paradosso su cui Taiuti riesce abilmente non essere didascalico pur utilizzando a pieno il linguaggio della didascalia mettendo in crisi i piani della rappresentazione inserendosi nella crepa di una società ormai di fatto incapace di discernere tra lo spettacolo e la verità. E’ questa profonda consapevolezza, unita ad un lavoro tecnico estremamente rigoroso, sull’uso del corpo e dell’immagine iconica, che permette a Taiuti di funambolare su quel pericoloso bilico, su quel filo di rasoio su cui si sono avventurati maestri come Jan Fabre e Paul McCarthy per strappare dalle facce dei propri spettatori le maschere dal volto umano che ognuno uscendo di casa cala sulla propria testa di maiale. |