Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21a Del 25 - 5 - 2008 |
F for fake: It ’s all true |
Un format che farà strada: la Festa del Paparacchio |
Attilio Scarpellini |
Dopo aver divorato la natura, il postmodernismo ha inghiottito anche il popolo e lo ha restituito sotto forma di spettatore di se stesso, incapace di compiere gesti che non siano filtrati dalla scaltra consapevolezza dei media…Il concetto è quasi semplice a dirsi – Pasolini aveva lanciato un lungo, agonizzante avvertimento al proposito – ma difficile a farsi, cioè a rappresentarsi. L’idea di una finta festa popolare concepita come un’installazione plurima che in ogni angolo occupato dai suoi guitti – dai suoi sgangherati e malinconici officianti – alterna la citazione alla parodia, la memoria al parossismo surreale, poteva venire a una vera televisione, se solo le televisioni possedessero un genio. E invece è nata nello schermo sfondato di Telemomo’, tra i bamboli e le macchine celibi di Andrea Cosentino, il più feroce e il più poetico tra quei decostruttori del montaggio televisivo della realtà che invece di servirsi della carta usano gli strumenti del teatro – e nello spettacolo vivo (non “dal”: vivo in sé) frantumano le concrezioni ideologiche di uno spettacolo che ovunque sparge e generalizza la morte di quella che un tempo si chiamava realtà. Si chiama Festa del Paparacchio e il suo format farà strada, dal lotto numero 12 – uno dei più scenografici della Garbatella, gran palco naturale che l’altroieri come un anno fa si spalancava sontuosamente sotto la luna – fino alle cittadine dell’Italia profonda che lo vedranno sbarcare prossimamente sulle loro piazze con i sui rituali pasticciati, le sue processioni farsesche, le sue dirette televisive infarcite di ciarpame. Ma anche con le sonorità tradizionali dei cunti improvvisati da Gaspare Balsamo dove il colore lunare della fiaba e la voce spezzata dal lamento d’amore sembrano sbaragliare ogni disillusione (quasi a dire che, a dispetto dell’eterno presente in cui siamo immersi, un prima, una natura esistono comunque e premono dal fondo di una lingua soffocata…) Cosentino, da bravo organizzatore di feste, per cominciare ha chiamato gli amici – Gramigna teatro, Gian Maria Tosatti, Mario Iacomini – e ne ha disposto estri e talenti in un percorso che girando attorno al giardino del Lotto trasforma questo in una piazza e le fughe arcuate dei palazzi in altrettanti vicoli: prova generale di una sagra paesana che, tra band e clown, stand ed attrazioni, si muove sul filo di un’unica ispirazione che è nel contempo vera (la festa c’è sul serio con tutti i suoi segni) e mistificata (la tradizione a cui si rifa è una smaccata invenzione). Più ci si inoltra nella notte e nell’anarchico palinsesto che ne scandisce il rituale, più la natura del Paparacchio, questo Sarchiapone dei nostri tempi, lievita e si complica, si gonfia e diviene inafferrabile. In un siparietto, eccolo comparire in catene come una mostruosa attrazione da circo, per metà umana e per metà bestiale, che un domatore afasico cerca di rabbonire in quel napoletano di pura gestualità che è la lingua internazionale dei mercati e delle fiere. Ma se, un momento dopo, si presta orecchio al cunto della Pupa si scoprirà che quello del Paparacchio è addirittura un regno, mentre secondo la fiaba di Biancaneve riversata nella cantilena liturgica che accompagna le processioni cattoliche, sotto la statua vivente dell’interessata, il Paparacchio è decisamente un animale dotato di organi interni che possono essere scambiati per quelli dell’uomo. Sul palco di Telemomo’, il Cosentino conduttore, del resto, assicura che la “mortificazione simbolica” del Paparacchio è una festa tradizionale della Garbatella che affonda le origini nella notte di tempi addirittura “prepagani”. Ma – attenzione – la Garbatella è anche il quartiere che, oltre a sfociare su paniche e lussureggianti distese di grano, oltre a confinare a sinistra con la Spagna da cui partì Colombo e a destra con l’Ucraina di Chernobyl (da cui giunge sui suoi mercati una radiosa specie di pomodori), ospita la stessa vecchietta dall’accento abruzzese che in Angelica abitava dalle parti del Flaminio, mentre nella versione di Anto Le Momò presentata al Rialto disquisiva sulle usanze “agropastorali” (sic!) del Ghetto di Roma. (Sarà per questo che la “gallina ovaiola” garbatellese presenta straordinarie somiglianze di funzionamento con la “macchina sconocchia quattrani” con cui le vecchie del Ghetto cucinano la pecora…). F for fake, come direbbe Welles: le bolle etnologiche di Cosentino, ancor più esilaranti del solito, si librano nell’aria tiepida come quel palloncino a forma di cuore a cui il performer romano ha legato un uovo e sul quale tenta inutilmente di sparare con una pistola giocattolo. Poi si sciolgono a mezzaria e ricadono sugli spettatori in una pioggia di risate. Ma nel contempo, come direbbe sempre Welles, It’s all true, è tutto vero: sotto la grazia di questo riso finzionale che all’occorrenza ride anche di se stesso, si agita una realtà imbavagliata che è a sua volta il fantasma di una finzione. Se Cosentino e i suoi complici hanno di mira gli idioletti della narrazione, il rito e il trito di un’originarietà (culturale linguistica, sociale) ormai irreperibile sulla scena del nostro mondo, è pur vero che non esitano a mascherare il vero nel falso e a rovesciare le origini sul presente per incantarlo nella malia di un lingua che, troppo antica, sembra appena inventata. Il recitativo di Biancaneve che alle orecchie dello spettatore suona come un pastiche con qualche tratto di blasfemia – ma una mela è qui e lì, tra il mito edenico e la fiaba, a indicare la stessa soglia di conoscenza e di morte – è in realtà il testo dei Grimm. E se suona crudo e astruso è solo perché non lo riconosciamo più, la nostra memoria si è fermata a Disney. La nostra memoria somiglia in tutto e per tutto a quel bambino che venerdì sera era bloccato in fondo alle scale del pianerottolo e, dal basso in alto, fissava estasiato la Biancaneve bionda sulla sua portantina da Madonna pellegrina: incurante di Grimm e anche di Disney, con gli occhi dritti nel corpo del mito che, portato a spalla da sette nanetti di plastica, è qui ed ora suo contemporaneo. In questa strana festa la sguaiatezza comica si fa spesso, bruscamente, mesta e viceversa. Come nel finale, quando al seguito di Balsamo i paparacchiesi si incamminano verso l’ arcano spaventapasseri che Gian Maria Tosatti, con la collaborazione di Elisabetta Mancini ha piantato su una montagnola di sale in mezzo al giardino. Balsamo infila rose secche nel sale, intona Vitti ‘na crozza, vorrebbe essere grave mentre si appresta a bruciare quel vecchio fantasma con la faccia coperta da un fazzoletto bianco. Ma, poiché ha dimenticato le parole, si rassegna a canticchiare assieme al coro un negligente trallalero trallalà, quel che resta di ogni melodia. Poi il fuoco sale e tra le fiamme bluastre l’impermeabile del misterioso personaggio – un Paparacchio sub specie magrittiana – si accartoccia e si invola in ceneri scoprendo l’ossatura di una croce di ferro. Icastico colpo d’occhio (firmato Tosatti) , tanto tragico quanto ambiguo, eppure non conclusivo. Alle sue spalle, il petulante anchor-man di Telemomo’ si riaffaccia un’ultima volta dal suo schermo forato e dichiara chiusi i festeggiamenti con scintillanti giochi pirotecnici, come nelle migliori tradizioni. Ma dalla sua pistola puntata contro il cielo esce solo un rumore fesso e un nugolo di innocue stelle filanti. |