Un'immagine dallo spettacolo (ph.Eva Tomei)
Un'immagine dallo spettacolo (ph.Eva Tomei)
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Anno 1 Numero 21b Del 28 - 5 - 2008
Un’altra Antigone in un altro Calderon
Il Pasolini immemoriale di Triangolo Scaleno

Attilio Scarpellini
 
Forse non ci saranno altri luoghi in cui svegliarsi. E neppure sogni da confondere con la realtà. O incubi da cui destarsi con un finale diverso da quello che invece ebbero. Forse, quella lunga declinazione della lotta tra la diversità e l’omologazione che è il Calderon di Pier Paolo Pasolini non poteva suscitare altro nel pubblico del Palladium che l’applauso pieno di riconoscenza, ma soprattutto di stupore che ha suggellato la messinscena di Roberta Nicolai: le parole di questo poema snervato, grondante dove anche la citazione, il nome proprio – Barthes e Picasso, Brecht e Machado – rotolano nel vento di una nostalgia più che inguaribile, ormai senza rimedio, sono così lontane da noi che a renderle vicine può essere soltanto il sogno, o il teatro. Pasolini ci parla e nel momento in cui scatta la consapevolezza che le sue parole – una finta profezia del Maggio ’68 divenuta la vera descrizione di quel che stiamo vivendo solo ora: ora che il genocidio della povertà sta per essere ultimato – si voltano dall’ombra in cui erano immerse (assieme al mito dello “scrittore sacrificato” di cui ogni tanto il teatro ci ripropone il feticcio della voce registrata) per rivolgersi a noi, in quel momento vecchi e giovani si ritrovano impegolati in una commozione che non prevede più confini tra chi ricorda e chi per la prima volta sente.

E’ inutile – e sarebbe facile – pensare che quell’ultimo sogno detto da Tamara Bartolini con la fragilità di una bambina in sottoveste che scava con la voce una notte senza stelle noi non l’abbiamo sognato a nostra volta, solo perché quel brechtismo grave che Michele Baronio incarna così bene lo respinge come un’assurdità tra i vani sospiri delle anime belle (solo perché così “deve essere” come, fin da Shakespeare, comanda la ragione). E’ talmente  evidente, invece, che proprio nell’anacronismo degli operai spagnoli con il fazzoletto rosso che irrompono nel lager per liberare gli ebrei si nasconda il segreto meno confessabile del fallimento del movimento comunista - che molti spettatori abbandonano il teatro rimasticandone l’enormità visionaria come se appartenesse a un sogno che hanno fatto in proprio e che l’intemperanza sentimentale del teatro ha finalmente rivelato. Ma è altrettanto evidente che quel sogno non ci si poteva limitare ad ascoltarlo compitato nella retorica asciutta, da oratorio laico, che il suo autore voleva assegnare a un “nuovo teatro” (equidistante dall’urlo pregrammaticale delle avanguardie e dalla chiacchera borghese): bisognava dopo tanti anni avere il coraggio di restituirgli un corpo. Bisognava poterne distillare i colori sontuosi – “tra il rosso, il rosa e il viola” - che la sua poesia smodata non riesce a trattenere, a costo di stilizzare l’immaginario barocco di una Spagna né vecchia né nuova, ma semplicemente immemoriale (cattolica e rivoluzionaria, franchista e antifranchista) di cui la Lupe di Marzia Ercolani è la disperata rappresentante.  Roberta Nicolai ha “spazializzato” il Calderon – tutto all’opposto del gesto con cui Latella schierò il concerto di Bestia da stile sul proscenio -   in una danza di geometrie familiari dove gli attori sono sempre in scena perché, di sogno in sogno, i loro ruoli si ridefiniscono, senza mai riuscire a morire: lancette su un orologio che si deforma, corpi che la velocità di modificazione del Potere lascia feriti e senza memoria, fino a ridurli all’evanescenza di un fantasma. Così la Torre di Sigismondo in La vida es sueno, da cui parte il Calderon, proprio come la casa mutante di certi incubi, diviene lo spazio di una trasformazione senza rotture: magione pretenziosa e altolocata di una nobiltà decaduta nel fascismo, baracca proletaria, appartamento borghese, lager. Un interno sfoderato nell’esterno della Storia che lo determina, lo maschera, lo illumina, vestendo e spogliando i suoi hidalgo e le sue damigelle, fasciandone i corpi con la voluta di un drappo rosso che, ritirandosi come un’onda, lascia scoperta la desolazione di un tavolo usato come letto nel tugurio di una prostituta. Immagine è ciò che sale dal fondo: con il suo contrappunto di immagini, la scrittura scenica della Nicolai risponde al testo di Pasolini senza mai commentarlo, cioè senza piegare la libertà della poesia in quella del teatro, ma andando dall’intensità all’evidenza, come nella scena più smagliante dello spettacolo, quella in cui Francesca Farcomeni, Marzia Ercolani e Tamara Bartolini avvicinano e allontanano dai propri volti tre specchi riccamente incorniciati (e nel fondo di quella visione i loro volti si stagliano e si confondono al riflesso scuro, luttuoso che viene dalla sala, ma è difficile non intravedervi anche un altro riflesso dove lo sguardo di Pasolini si incrocia con quello di Foucault sul famoso specchio mimetizzato tra i quadri in Las Meninas di Velazquez).

La recitazione si spartisce tra i gruppi umani che compongono e scompongono i quadri dello spettacolo come l’unico punto fermo nell’incessante modificazione delle identità: ma più che dividere gli individui, distingue i generi del sogno calderoniano. Negli uomini, a cominciare da Enea Tomei – che nella prima parte del Calderon riporta la figura autobiografica del poeta traditore della propria classe che campeggia anche in Bestia da stile -  insiste il tono di un’animosità dialettica condannata a tornare su se stessa (esemplare la partita a ping pong dove al posto della rete c’è una fila di calici), più aspra nei ruoli paterni e maritali di Baronio, più sfumata in quelli curiali e dottorali di Antonio Cesari. Nelle donne prevale l’incertezza fisica di chi la Storia (questa ossessione negativa che Pasolini ha condiviso con tutto il Novecento) non la fa, ma la subisce, anche quando come donna Lupe (Ercolani) la sfrutta nella forma di una devozione alla terra sempre umiliata o vi si adatta come le figure sororali cui dà vita la Farcomeni, un’Ismene rassegnata all’esistente e alle mode che da una parte spalleggia dall’altra scoraggia i risvegli allucinati della sua Antigone. Perché è questo la Rosaura interpretata da Tamara Bartolini, un’altra Antigone in un altro Calderon, e dunque un’altra infanzia, perennemente sospesa tra la realtà e il sogno – trubsinnig per usare la parola con cui Holderlin definisce Antigone che va alla morte: “confusa fino alla demenza” – ma refrattaria a dissolvere nell’ultimo risveglio la memoria di tutte le vite che la attraversano. Non la lucida memoria politica, ma la traccia  sensibile e dubbiosa delle diversità che siamo quando sognando incontriamo in noi stessi gli altri, quel poetico corpo di corpi che il presente eternizzato del neocapitalismo si appresta a seppellire nella più vasta e inattaccabile delle prigioni. Ieri, negli anni di Pasolini e del Calderon. Oggi,  quando il teatro ci fa sentire il lontano che avvicinandosi ci sfiora – per ricordarci che anche noi un tempo abbiamo sognato il sogno che non si può più sognare.