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Un'immagine di "Essereacqua"

Anno 1 Numero 21b Del 28 - 5 - 2008
I misteri dei giardini del Lotto numero 16
Essereacqua: cronaca di una fugace apparizione

Attilio Scarpellini
 
Una figurina liberty smarrita in un parco, una fata caduta da un albero che fatica a rimettersi in piedi: questa è Sabrina Broso. Fin quando aderisce al blocco di pietra su cui ha posato la testa, sotto il grande ulivo del Lotto numero 16, le sue lunghe chiome sembrano anch’esse pietrificate come quelle di certe sculture che ancora si vedono nei cimiteri monumentali di mezza Europa. E’ quel che più profondamente vuole essere: una musa addormentata priva di uno scultore. Il pubblico raccolto in un cerchio di sedie bianche sistemate nel giardino la attende con il cuore sospeso, si chiede che farà ora, dopo i primi minuti di immobilità, come si evolverà quella che anche i più sprovveduti, i più innocenti, hanno compreso sarà una metamorfosi. Ma una volta che la musa è a terra, rannicchiata, poi stesa con le spalle al pubblico, i più maliziosi, i più sprovveduti, i meno innocenti, non riescono a non fissare le spalle nude e i fianchi ben formati (da viola di Man Ray) che si disegnano sotto la tunica attillata: essere acqua, come recita il titolo della performance, vuol dire anche non riuscire più a nascondersi, emergere in una trasparenza. Così comincia il giro lento, straziante di un corpo che si contorce, si accovaccia, striscia sulla terra, finisce a gambe all’aria come Gregor Samsa nel racconto di Kafka, nel tentativo di cancellarsi, di esalare un’anima virginale ed appartata nella materia che lo circonda, ma alla quale – per statuto – non appartiene del tutto perché tra sé e il primordio liquido in cui vorrebbe scomparire c’è pur sempre lo sguardo degli altri.

C’è l’attenzione protesa e piena di rispetto delle due anziane signore sedute accanto a me, composte e un po’ accaldate – ma ora un lieve alito di vento fa rabbrividire l’ombra scura degli alberi placando un po’ il ronzio delle televisioni accese che soffiano più calore nel giardino – forse le due persone al mondo che, in questo momento, esprimano maggior fiducia nell’arte contemporanea e nella capacità di Sabrina Broso di portare, se non più senso nelle loro vite, più meraviglia nei loro occhi. Ma la danzatrice dai lunghi capelli corvini – che sono un altro corpo e raccontano persino un’altra storia – si limiterà a miniaturizzare un immane sforzo per ritrovare la posizione eretta per mimetizzarsi tra le edere del muretto lungo il quale si srotola la sua performance con le ombre che le istoriano il volto come nella peggiore immagine del peggior Peter Greenway. Per poi fermarsi, voltarsi un momento verso il pubblico, lanciargli uno sguardo in tralice, un po’ timido e un po’ falcato, e sparire dietro l’angolo. Tutta qui la “tensione sospesa” che, tra “fumi vegetali e segrete ossa profumate di nulla” si avviava “verso lo svanire” in un tempo variabile e indefinito: il tempo di registrare il passaggio di uno strano animale – o fate voi: dell’assolutamente altro – insieme troppo lento e troppo fugace, troppo remissivo e troppo altezzoso. Come l’albatro di Baudelaire, Sabrina Broso non può condividere la stessa terra del nostro filisteismo. Dalla bocca socchiusa di una delle signore si libera un piccolo sospiro, una specie di gemito involontario. L’arte è difficile e la critica troppo facile per non diventare difficilissima, qui nei giardini di Compton House.