Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21b Del 28 - 5 - 2008 |
Remembering games |
Le stanze dei giochi di Sineglossa e Katharina Trabert |
Graziano Graziani |
La visione che ci propone Sineglossa in Pneuma è un gioco d’ombre che si sviluppa nello spazio di una porta. Si entra otto per volta, al buio, distribuiti su una rampa di scale, a osservare dal basso verso l’alto l’alternarsi delle immagini e dei suoni ascoltati in cuffia. Il breve spettacolo si riconnette a un lavoro più ampio, Pleura, che il gruppo di Bologna ha sviluppato a partire da una riflessione sul personaggio di Salomè, per poi distanziarsene. Perché Salomé è un personaggio che non c’è (nella bibbia non compare mai il suo nome) e una vicenda che non esiste; ma allo stesso tempo è una delle storie più universalmente conosciute, di quelle che si raccontano di generazione in generazione. È per questo che la si riconosce istintivamente nelle immagini che la lanterna magica di Federico Bomba (che cura l’allestimento), Simona Sala (in scena), Luca Pancetta (immagini luminose) e Silvio Marino (suoni) ci propone nell’angusto ingresso della Villetta – l’ex sede Pci che ospita la parte conviviale di Teatri di Vetro. Le immagini di una danza da discoteca sfrenata, in stile «Footloose» (anche la musica è decisamente anni Ottanta), si alternano con quelle repentinamente silenziose di una goccia che cade, forse di sangue, ma di un sangue viola. Il resto è una narrazione per suoni e immagini, fatta di simboli e visioni che si avvicendano con la sapienza di un teatro d’ombre cinese realizzato con gusto contemporaneo: mani insanguinate, un corpo senza testa, il rumore dei passi. Frasi appena percettibili ci riconducono alla dinamica della storia (“sono sicura d’averlo ucciso”, “bacerò la tua bocca”) finché due volti si guardano, in una simmetria da far pensare che uno si specchi nell’altro. Che forse l’uno è soltanto il riflesso dell’altro. E che la danza autistica in cui si chiude il piccolo cerchio di Sineglossa possa non essere altro che la stanza dei giochi di una solitaria principessa contemporanea, che vive la sua gloria e il suo dramma nel cono d’ombra della sua testa. Sempre nello spazio della Villetta, stavolta nella tenda, si svolge la performance di KatharinaTrabert dal titolo liebesgeSCHICHTEN, gioco di parole in tedesco in cui si fondono le storie (geschichten) e gli strati (schichten) d’amore (liebe). La performance comincia nel tardo pomeriggio e va avanti per ore, sviluppandosi lungo una struttura aperta che come scrive Katharina – danzatrice e performer tedesca trapiantata nella provincia di Rieti – “non si potrà mai concludere”. Perché le storie e le dinamiche che racconta, in una sorta di stanza dei giochi piena di oggetti e ninnoli dall’apparenza insignificante ammassati su un tavolo, si sommano a strati appunto, l’una sopra l’altra, in un gioco di variazioni sul tema e accumulazione che ricorda molto da vicino il lavoro di artisti contemporanei come Sophie Calle. Introdotti con un diaproiettore da capitoli numerati, gli “strati” d’amore si sommano l’uno sull’altro, creando pian piano una realtà a parte dove l’avvicendarsi delle storie supera la sua somma. Katharina racconta, gioca con i pupazzi presi dal tavolo, fa delle pause, canta appresso alle musiche – anche qui come un’adolescente nella sua stanza – mentre le ascolta con un i-pod, a volte le posa davanti a un microfono e le fa ascoltare al pubblico. Tutto si somma per delicate intuizioni e analogie. Racconta di come tra adolescenti non ci si bacia subito, ma bisogna creare un gioco che ti consenta di avvicinarti all’altro; canta sussurrando «Voglio il tuo profumo» di Gianna Nannini; poi ci fa sprofondare in una storia bizzarra dove una donna cerca di ricreare l’odore di nicotina della mano del suo amante stringendo le mani dei fumatori che incontra. (Per un caso singolare, mentre nell’edificio accanto scorrono le ombre di Salomè, in una delle storie dice che “non ci si può fidare di uno che si chiama Giovanni”…). È un gioco di possibilità e ricordi, personali, di amici, di personaggi letterari e di film; un percorso che sporca di autobiografia i nessi e le considerazioni dei capitoli, anche qui secondo lo schema documentaristico e antidiaristico caro ad artisti concettuali come la Calle. In mezzo, momenti tra l’assurdo e la poesia, tra lo scolarsi l’acqua dei fiori e il ballare timido di bambina. Difficile e anche pleonastico raccontare tutte le immagini che scorrono e nascono nell’arco di più di tre ore di performance, che Katharina Trabert costruisce e porta avanti con un’incredibile presenza scenica, sospesa tra il naif e l’ironia. Eppure a volte la performance sembra condensarsi e sprigionare tutto il mondo che descrive per strati in un’unica, poderosa immagine. Come quando Katharina, a terra, disegna con il gesso il perimetro del suo corpo, per poi compiere nuovamente l’operazione mentre “abbraccia” la sua sagoma precedente. Gli amanti stilizzati che restano al suolo sembrano un mostro con quattro gambe e due teste – come gli uomini primigenei di Platone, che conoscevano l’unità prima di essere divisi da Zeus in due metà. O, forse, come il mostro dell’ossessione amorosa, del fondersi totalmente con l’altro, che solo nel corso dell’adolescenza sa sprigionarsi in modo dirompente e leggero a un tempo. |