Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21b Del 28 - 5 - 2008 |
Quando si dice le regole… |
“Opera” di Vincenzo Schino ci ricorda che in teatro niente č scontato |
Gian Maria Tosatti |
Forse bisogna leggere gli appunti di Vincenzo Schino alla fine della sua Opera. Bisogna ricorrervi perché si esce con un senso di smarrimento non tanto emotivo, quanto logico. Sulla scena si sono susseguite diverse immagini, appartenenti sì ad un immaginario unico e visivamente coerente, ma nella loro natura piuttosto eterogenee. Manca il nesso, e allora bisogna andarlo a cercare negli appunti di regia, ma il nesso non c’è. Negli appunti c’è proprio la volontà di costruire una specie di rassegna sospesa di esplosioni emotive che si richiamano a questioni del profondo, come il rapporto fra essere e apparire, fra il sé e l’altro. Punti critici sulla cima dei quali compiere un’acrobazia artistica per avere il pretesto di puntarvi sopra un occhio di bue e mostrarne tutto il delicato tremore. Per fare questo Schino ricorre ad una metafora condivisa, quella del circo, che da sempre è assai più di uno spettacolo viaggiante, è un mondo parallelo, un mondo in cui ci si strappa le maschere dei volti abituali per trovarvi sotto la faccia del clown interiore, che appunto non è che un essere umano in potenza, il bambino atavico che vive dentro ognuno di noi. Se dunque alla fine del lavoro sembra mancare il “nesso”, non è per via di una leggerezza nel modo di pensare il proprio discorso e il sentimento espanso – che nelle note di regia scandite da date non può che farsi sentimento del tempo – di cui si vuol essere amplificatori. E a dirla tutta Schino sa anche che il teatro esiste appunto per amplificare le sensazioni di tutti quei nervi scoperti che nella vita quotidiana non servono a niente, ma senza i quali non esiste una “vita” quotidiana, quei nervi che sono scoperti perché sono i fili annodati e attorcigliati del burattino che siamo, appeso appunto alle corde del cuore. Il cuore, che - come diceva Butor citando Giacometti (presente in scena con un richiamo piuttosto esplicito) – di cui «vorrei tradurre tutti i rallentamenti e le accelerazioni, il cuore che vorrei cogliere tra i palmi delle mani per accarezzarlo, calmarlo, guarirlo». Eppure manca il “nesso”. L’universo dei sentimenti è chiaro e chiara è anche la metafora che si vuole metateatrale. E allora, appunto, ci si sorprende che il nesso mancante sia proprio una delle regole fondanti di quel teatro che Schino vuole utilizzare come lingua ed immaginario archetipo. Una dopo l’altra si susseguono immagini che esprimono una grande consapevolezza visiva, alcune decisamente belle, come quella del clown che piange davanti al microfono o quella dell’altro pagliaccio che ride triste, singhiozzando contro la porta chiusa del fondo palco. Sono belle, ma non riescono ad essere forti, perché sono tagliate ai margini, gli è tagliato il respiro. La prima regola della composizione teatrale (che poi è regola dell’arte se non che nel teatro essa si relaziona direttamente con l’elemento tempo-durata) è che ogni immagine deve avere una preparazione. Ad ogni immagine bisogna arrivare. Maestro ne è il Nekrosius degli Shakespeare e la scuola russa in genere. L’immagine è una questione d’amore. E’ forte se si passa per il corteggiamento, per i momenti stentanti che preludono l’amplesso. Ma se si salta tutto e ci si trova di fronte ad un corpo nudo che si offre non è affatto scontato che qualcosa si consumi. Schino fa questo errore. Espone l’ultima stilla del sangue, quella che fa vibrare, è vero, ma che senza il lungo e sofferto dissanguamento non è che una goccia come tutte le altre, senza epica. Questo è quanto si può dire di Opera, un lavoro che somma lampi di un immaginario complesso che al suo interno avrebbe tutto quel che serve per essere catartico, ma che nel portarsi in scena decide di lavorare per estratti anziché per sintesi. |