Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21b Del 28 - 5 - 2008 |
Il campo |
Da quello di concentramento a quello di calcio nei lavori di Proyecto JDPL e Biancofango |
Mariateresa Surianello |
Due fili di ferro spinato sono tesi sul boccascena e sul pavimento altri pezzi arrotolati ne delimitano pericolosamente lo spazio. Dietro questa barriera concentrazionaria si muovono sei figure di nero vestite, avanzando minacciose verso il pubblico. Ma nei suoi cinquanta minuti di svolgimento Carne non porterà mai gli spettatori nella zona di pericolo, lo scontro resterà chiuso oltre la barriera spinata. In assenza di parola, la danza assume già nell’incipit una cifra fortemente narrativa, si fa linguaggio descrittivo di azioni ripetute all’infinito pur nella loro variazione coreografica. Presentato sul palco del Palladium da Proyecto JDPL, acronimo di Juan Diego Puerta Lopez, coreografo e regista colombiano che, trasferitosi in Italia alla metà degli anni 90, sembra aver portato con sé il pesante bagaglio delle feroci dittature militari che hanno sconvolto di sangue le società dell’intero continente sudamericano. Puerta Lopez mostra la cultura della violenza fascista assunta come unica possibilità di relazione, per giungere alla sopraffazione degli uni sugli altri, in una marmellata indistinta di individualità omologate. Con i suoi undici quadri, Carne però non è costruito per raccontare una storia compiuta, non c’è un inizio, uno svolgimento e una fine, quello che accade è sempre una sequenza di attacchi alla persona, spesso a mani nude e talvolta con manganelli, in un continuo scambio di ruolo carnefice/vittima. Un effetto spirale, nel cui gorgo si consuma la carne e l’anima. Tra colpi fracassanti e il collasso dei corpi, il movimento per qualche istante assume tratti classici e disegna un’attitude, allungata poi in arabesque, su una musica che sfonda le note bachiane per approdare al suono sintetico, all’indistinto stridore e al pauroso scricchiolio della corrente elettrica.
Dall’immediatezza del messaggio di Proyecto JDPL, si passa allo scavo introspettivo di Biancofango, che lentamente dispiega l’incapacità di vivere del personaggio, Mastino. En plain air prende forma In punta di piedi, nel Lotto 16 della Garbatella, luogo ideale per trovare refrigerio dallo scirocco che ha infuocato la città all’improvviso. Basta una panchina e una linea bianca, che Andrea Trapani traccia come prima azione dello spettacolo, per definire lo spazio scenico. Due elementi essenziali alla scansione della scrittura drammaturgica e al disegno registico, ritornanti nella seconda parte della trilogia dedicata all’inettitudine (ha debuttato qualche giorno fa, nel romano Teatro Colosseo, La spallata, costruita su “una sola” memoria dal sottosuolo di Dostoevskij), inaugurata nel 2006 proprio da questo In punta di piedi, scritto e diretto da Trapani con Francesca Macrì. Un interessante progetto che si concluderà intorno a Il soccombente di Thomas Bernhard. Se l’ispirazione dostoevskiana è servita alla coppia di autori per analizzare la giovinezza, nel primo lavoro la compagnia analizza la condizione del perdente nel momento dell’adolescenza, impiantando l’azione in un luogo e in un tempo topici per l’esistenza giovanile, un campo di calcio nel corso di una partita. Zona franca in cui dare sfogo agli istinti più bassi, alla competizione spinta fino alla sopraffazione e all’annientamento dell’avversario. «L’unico grande rito del nostro tempo» – diceva Pasolini già nel ’70 (ricordano i due autori). Qui incontriamo Mastino di tutto punto abbigliato, con scarpini tirati a lucido ma destinati a restare intonsi, ai piedi di colui che entrerà in campo solo per dimostrare a se stesso e ai compagni la sua totale incapacità di giocare con la palla. Siamo in un campetto terroso alla periferia di Firenze, città d’arte, elegante e cosmopolita che degenera spesso in un provincialismo chiuso e competitivo. Città che presta la sua lingua, quella sboccata della strada, al monologo di Trapani, regalando dei momenti di forte comicità. Seduto sulla panchina l’attore è bravo a cambiare passo alla recitazione, dai toni spavaldi del mister a quelli pacati e remissivi di Mastino. Su quella panchina il flusso del dialogo scorre in parallelo alla partita che si sta giocando, con gli esilaranti commenti dell’allenatore ai suoi uomini, i rimbrotti e la spietata ironia nei confronti del giovane in panchina. Invece quando il protagonista si alza e oltrepassa la linea bianca si entra in un tempo sospeso, quello dello sguardo verso l’interno, il momento della sofferta solitudine. Ma forse, sono proprio questi quadri poetici a rallentare il ritmo di uno spettacolo ben scritto e ottimamente interpretato, in cui il flusso verbale è coniugato a un incessante movimento, quasi una partitura coreografica di finti palleggi e lanci di palla. Forse, andrebbero asciugate un po’ queste scene, ne guadagnerebbe d’intensità il lavoro. |