Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21c Del 30 - 5 - 2008 |
Cos’è la vita… |
“Luigi che sempre ti penza”, metafora per un popolo senza felicità |
Gian Maria Tosatti |
«Cos’è la vitaaaam senza l’amoreee» cantava una giovanissima Nada con la faccia seria dell’adolescenza. Era il 1969 e nell’Europa scapigliata dal vento rivoluzionario cambiavano le parole d’ordine, cambiava la lingua, la sintassi esistenziale. Erano gli anni della rivoluzione sessuale, della rivoluzione intellettuale, della rivoluzione politica. Erano gli anni che oggi nessuno vuole più ricordare perché surfando sull’onda di quello slancio molti si sono fatti male e molti di più non si sono fatti nemmeno quello. In confronto al cambiamento epocale dei costumi di una società che per la prima volta si scopriva globale, anche l’atterraggio sulla Luna di Armstrong diventa un dettaglio di secondo piano. L’allunaggio cambiava la storia dell’umanità, il rock cambiava la storia delle persone, di tutte, con nomi e cognomi, con indirizzi e sogni. E in questa ubriacatura collettiva che un po’ scimmiottava gli urli di Ginsberg e un po’ quelli dei cosiddetti “urlatori” della generazione prima, sul palco del Teatro Ariston di Sanremo risuona: «Cos’è la vitataaa senza l’amoreee». Una canzone buona per tutti, che quando si sente arrivare dalla gola cava del palcoscenico spalancato sul finale di Luigi che sempre ti penza, ha l’asprezza di uno schiaffo dato in piena faccia che ti fa svegliare, ti fa ripigliare dall’ebbrezza sessantottina, un po’ seria e un po’ sguaiata e ti riporta nel 1969, l’anno in cui Luigi – personaggio di fantasia, ma piuttosto verosimile – dalla Germania scrive alla moglie Antonietta che lì, all’estero, si canta, per non sentirsi troppo lontani, per non sentire la solitudine. Nel locale per emigranti in stile Pane e cioccolata, in cui Luigi stecca la canzone di Nada, mentre un po’ ride un po’ s’imbarazza, siamo nel pieno de “l’altra storia”. Quella a cui il maggio parigino è passato sopra la testa tanto quanto l’Apollo 11. Non c’è ’68 che tenga, non c’è rivoluzione, non c’è niente. Ci sono solo il lavoro e i morti di fame che perpetuano le migrazioni secolari dal sud verso nord, per poi riassorbirsi nella terra d’origine, che sembra non cambiare mai e invece giorno dopo giorno si allontana, quasi a negare la possibilità del ritorno. Tredici anni prima, quando Celentano inventava il rock italiano, c’era stato il disastro di Marcinelle a seppellire le migliaia di nomi e numeri stampati sugli accordi italo-belgi sul prestito di mano d’opera. Adesso c’era Nada e in Germania, nelle “barracche” c’erano altri contadini del sud saliti in cerca di un posto di lavoro retribuito con cui comprarsi un giorno un pezzo di terra. Lo sfondo è quello della fabbrica, unico, grigio, omologante come un unico tratto teso fra l’urbanizzazione ottocentesca, il campo di concentramento nazista ed appunto la fabbrica-mostro degli anni ’60. Arbeiter, il termine con cui gli operai italiani imparano a chiamarsi, e attraverso cui cercano di comprarsi la propria libertà non può che riecheggiare quell’Arbeit macht frei che campeggiava all’ingresso di Auschwitz e i turni di lavoro alla fornace, non possono non ricordare l’Ivan Denisovic di Alexander Solzenicyn. Eppure «C’è più umanità», considera Luigi, raccontando di come il suo capo, un ex ufficiale delle SS, si preoccupi di pagare fino all’ultimo minuto si straordinario. «C’è più umanità in Germania», dove la paga che ti sei sudato a fine giornata non sembra che la stai rubando. Ed è su questa frase, pronunciata nel fango della vergogna di essere emigrante, non esule, non esiliato politico, ma semplicemente emigrante, ovverosia morto di fame, che la rappresentazione entra in crisi. La storia di Luigi crolla in blocco, senza quasi fare rumore e il re rimane nudo impudicamente davanti agli occhi di un’intera platea. Questo testo di Gigi Borruso non è il teatro di narrazione che racconta una storia in fondo sentita mille volte. La vicenda è solo presa a prestito, per farne un’analogia, perché ci possa essere una storia, una rotta da seguire, da spezzare con questo apparentemente insensato ripetere sempre il proprio nome, «Luigi sono, sono Luigi», rivolto ad una sorta di dio-capotreno, macchinista del tempo che corre senza fermarsi. «Luigi sono, sono Luigi», torna a ripetere con lo stesso piglio disperato di quelli che oggi, quarant’anni dopo il 1969, continuano a chiedersi cosa si sia rotto e perché si viva ancora in quella costante disumana insicurezza del proprio futuro, del proprio destino, con quella sensazione di vulnerabilità, di esposizione a tutti i venti, che non è poi diversa oggi da quella degli emigranti degli anni ’60. «Luigi sono» ripete Borruso con lo stesso accanimento infantile, dei bambini che vogliono farsi riconoscere, che dicono il loro nome cento volte quando si perdono in mezzo alla strada e vogliono essere riportati a casa. E lui, un uomo di circa quarant’anni, non aggiunge altro, ma sembra dire al dio-capotreno, dandogli del tu, «Sono Luigi. Oltre alla vita mi devi anche la felicità». |