Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21c Del 30 - 5 - 2008 |
La ricomparsa di Dio |
La Giovanna d’Arco di Silvia Frasson tra sacro e profano |
Attilio Scarpellini |
Parla con Dio, vuole cambiare la vita… Arthur Rimbaud C’è lei, Silvia Frasson, in piedi tra gli alberi del Lotto numero 8 e non dà tempo al tempo: dice “buongiorno” e attacca il suo concerto di parole. Accanto, seduta, c’è Alice Rohrwacher con la sua fisarmonica e la sua voce musicale, avvolgente, mai troppo sotto, mai troppo sopra. Non c’è dubbio, insomma, persino visivamente siamo in piena “narrazione”: là dove si dice “io” anche per raccontare la storia più risaputa, gran luogo comune del teatro e soprattutto del cinema che, da Carl Thedore Dreyer a Luc Besson, ne ha fatto uno dei suoi misteri più sfruttati e più gloriosi. Ma l’io che si denuncia ed intona Giovanna che incontrò Dio è quanto di più ingannevole si possa immaginare, una specie di parallasse che permette al racconto di filtrare velocemente e senza troppe giustificazioni le epoche che è costretto a traversare: una cavalcata di cinque secoli per risalire da io a Dio, dalla Garbatella a Domremy, da Silvia Frasson a Giovanna la Pulzella. Solo a posteriori, infatti, si capirà che il pretesto drammaturgico della nonna – un “classico” della narrazione – che sta all’inizio e torna nella fine con una lettera trovata nel fondo di un armadio o le digressioni nel cabaret di una generazione (i soliti trentenni) che per non arrivare al sentimentalismo di Malot si è fermata a quello nipponizato di Rémy, sono la cruna minimalista da cui passa il cammello di un dramma sacro declinato in forma di ballata travolgente. Solo in seguito si riscopriranno gli ammiccamenti, le pause, i bruschi alleggerimenti di tono, come altrettanti arabeschi di uno studio drammaturgico – fatto assieme a Geppina Sica – molto più complesso di come appare sgorgando nel flusso di una voce che, svisando su una gamma di registri contrastanti, riesce a non perdere il ritmo che la guida e a riprendersi persino sul ciglio del peggior cedimento (ahinoi quanto diffuso nel teatro italiano), quello con cui il talento si incanta in se stesso. Silvia Frasson- tanto per intenderci – gioca l’estroversione del vernacolo, con quel retrogusto espressivo che si annida nel fondo delle lingue che la morte ha trasformato in mera musica (la sua è l’tosco-umbro di Chiusi), maneggia con disinvoltura stereotipi glamour di ogni forma e misura, è comunicativa e a tratti addirittura colloquiale, ma sotto le fasce che le stringono il petto nasconde un cuore (e un sapere) più vicino al respiro liturgico di Péguy che alla comicità di Zelig. E difatti quando il suo racconto torna su se stesso ed esplode è troppo tardi anche per opporle il sospetto di una schizofrenia nel suo andirivieni tra un passato incredibile (solo Dio) e un presente ancor meno plausibile (solo Io): le campane di Domremy si sono sciolte nell’aria della città meno mistica del mondo, il giardino del Lotto è una specie di Getsemani dove Giovanna e il suo compagno Jean si fermano per un momento gli occhi negli occhi, prima che lo scalpiccio dei cavalli dell’esercito francese rompa la sospensione del loro umanissimo mistero. La Frasson si avvicina e si allontana, racconta e interpreta, è se stessa (da brava narratrice) e l’altra (da brava attrice). Sotto le mura di Parigi, nel momento dello sconforto e della disfatta, il suo impetuoso canto di guerra si riversa senza inceppi nei versi della più struggente ballata di François Villon (che è anche, Tutti morimmo a stento, una delle più famose cantate da De André); nel processo della Pulzella si interroga e si risponde, e dal ritmo agonico, percussivo di ogni ripetizione scaturisce una glossolalia estenuata che si avvita verso il cielo, come il fumo del rogo, per liberare la verità di Giovanna che immaginando Dio ha finito col sentirlo. Ma – questo è il bello – è (ancora una volta) una verità senza possibile dimostrazione, cioè senza una dimostrazione che si ponga al di là dell’esistenza che la incarna, la serve e infine tragicamente ne esibisce il fallimento. Stagliata sulla storia, dove appare miracolosa, si rivela puntualmente sconfitta, così come nel momento di diventare istituzione, società, chiesa, non può essere altro che tradita ed oltraggiata. Già a Rheims, mentre un delfino impotente sta per essere consacrato Re, la Giovanna della Frasson scorge il lato posticcio, illusorio della grande commedia sovrana (della grande commedia pagana di un potere radicato in Dio) dove il re potrebbe essere un mendicante rattoppato e i vescovi “solo dei figuranti”. Ogni opera sulla pulzella (“di Lorena”, ripete con filologica scrupolosità la Frasson, non di Orléans) racconta la parabola di una solitudine – forse per questo i registi atei come Jacques Rivette hanno avuto buon gioco nel rappresentarla quanto e più dei colleghi credenti - e Giovanna che immaginò Dio, nella sua contrazione narrativa, non fa eccezione. Quel che discosta la Giovanna cantata da “noialtre” – come recita un sottotitolo anch’esso volutamente basso – dalle sue icone più ingombranti è una fisionomia limpida, quasi solare, tutta compresa nella potenza di un’immaginazione che non è ancora completamente uscita dall’infanzia. Niente di androgino, e neanche di guerriero, in questa ragazzina che sogna le sante come tante principesse e si traveste da uomo solo per proteggere la sua missione dalla violenza di un mondo di maschi. Niente di arcano nel suo individuare a colpo sicuro il re nascosto in una folla di nobili, solo una sicurezza di intuito che ad altri e in altri casi rivela l’esistenza dell’amore. E dunque – di nuovo - niente di dimostrabile nella sua parabola, fosse anche il “religioso” che, nel racconto della Frasson, va dall’alto al basso, dall’immaginazione al corpo, seguendo non la via della Chiesa ma quella di ogni mistica che, a forza di parlare con Dio, finisce col pretendere di cambiare la vita (per ritrovarsi accusata di eresia e trascinata al rogo). Il cuore, conclude icasticamente Silvia Frasson nello spericolato (e un po’ unanimistico) finale del suo spettacolo: ecco il segreto della santità vista come assoluto naturale. Certo, è singolare – e qualcuno nel pubblico lo fa presente – che Dio riemerga, sia pure soltanto come immagine, ai confini del teatro di ricerca da cui un editto illustre lo aveva a suo tempo espulso. Ma è pur vero che lì si parlava anzitutto del suo giudizio. In Giovanna che immaginò Dio, insiste più che altro quella che Slavoy Zizek definisce la fragilità dell’assoluto, non il suo potere. E dunque: avanti compagni (“per trasformare il mondo e cambiare la vita”) con Marx, Rimbaud e Giovanna d’Arco. |