Kataklisma Teatro
Kataklisma Teatro

Anno 1 Numero 21c Del 30 - 5 - 2008
Tempi moderni
“Time” di Kataklisma prosegue la ricerca sui meccanismi della società

Attilio Scarpellini
 
Molti lavorano sul corpo come oggetto estetico. Pochi, invece, come Kataklisma teatro sul corpo come macchina sociale. Dopo Buffet, anche la breve performance di Time non fa che confermarlo: l’utopia e le retoriche del presente sono il terreno più profondo di una riflessione morale che Elvira Frosoni porta avanti attraverso il teatro. Non è tanto – o non è solo – la ripetitività a dettare lo strano magnetismo emanato dai movimenti delle sei donne nerovestite, seducenti e irrepresensibilmente truccate, che la regista ha schierato su un’immaginaria linea di partenza nel foyer del Palladium, con le spalle alla gran parte del pubblico. E’ anzitutto il contrasto tra la simmetria plenaria, novecentesca, dei loro movimenti corali rigorosamente more geometrico e le continue dislessie che affliggono i diversi corpi individuali in un comico succedersi di inciampi, cadute, slogamenti, inabissamenti – fino a scivolare a corpo morto, ma lanciati come siluri, nella totale inerzia di quella posizione distesa che secondo Husserl segnalava il “grado zero” dell’energia umana. Ironia della sorte, l’individuo sdraiato – a faccia in giù o a faccia in su, stecchito o ancora intento a parlare come l’attrice che telefona ripetendo frasi sconnesse – è l’unica alternativa concepibile all’individuo perennemente eretto e in movimento, intento a saggiare non l’ampiezza della terra che ha sotto i piedi ma la ristrettezza dello spazio in cui il tempo del lavoro, di cui Time è evidentemente uno scampolo parodistico, lo costringe. Il respiro solenne del Messiah di Haendel non fa per così dire, che peggiorare le cose, acuendo il divario ironico tra un mondo che vorrebbe muoversi come un solo corpo ideologico – lanciato verso le meravigliose sorti e progressive del mercato globale – e un’esistenza che esplode in un caleidoscopio di posture, tutte ugualmente astruse, tutte ugualmente insignificanti: quel che resta dell’individuo in un’epoca di individualismo conformista. Joyce diceva che la Storia era un incubo, Kataklisma descrive l’incubo divenuto ordinario in cui il riflusso della storia getta un’esistenza immersa nell’identità di un tempo equalizzato sull’istante, in un eterno presente puntuale e ossessionante (la grande sveglia che una delle giovani interpreti, addormentata come una marionetta, stringe tra le braccia) dove ogni variazione (vivere, amare, mangiare) è una differenza illusoria destinata a ripetere il tema. Out of time, in un fuori indisponibile alla percezione storica, c’è solo il malinconico dinosauro giocattolo che la regista tiene con un lungo guinzaglio rosso. Balletto meccanico per spasmi e brusche interruzioni di energia, dove si avanza e si cade con l’incessante monotonia delle pile che non sono duracell, Time celebra la fine di ogni durata e, se la citazione di Haendel non è ingannevole, di ogni possibilità che il tempo degli orologi sia stroncato dall’infarto di un “arresto messianico dell’accadere”.