Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 1 Numero 21d Del 1 - 6 - 2008 |
Lo spettro del socialismo |
La confessione di un craxiano in “Li corpi scuri” di Simone Faloppa |
Attilio Scarpellini |
Chi non è socialista a vent’anni è un arido, chi lo è oltre i quaranta è un imbecille. G. B. Shaw Gli habitués di Teatri di Vetro dovrebbero ricordare, proprio un anno fa, L’assoluzione di Gianluca Riggi: un’irriverente conferenza-spettacolo dove si parlava di Giulio Andreotti e dei misteri d’Italia che ruotano attorno al più grande di tutti i misteri, una sopravvivenza umana e politica talmente tenace dal costringere i registi a imbalsamarne l’icona prima che il soggetto sia passato a miglior vita. Di sopravvivenze, o forse di reviviscenze spettrali e di risvegli vampireschi nei sotterranei della storia, parla anche Li corpi scuri, lo spettacolo con cui Simone Faloppa riapre le pagine spillate di un altro capitolo mai definitivamente scritto del romanzo italiano che ha per protagonista il socialismo craxiano. Ma le analogie tra i due spettacoli, che pur si sfiorano dalle parti del fallito golpe di Junio Valerio Borghese, si fermano qui. Se Riggi costruiva il suo dall’esterno, ricucendo demiurgicamente i fili slabbrati degli omissis e continuando a raccontare là dove la storia ufficiale si interrompe, Faloppa è immerso in un personaggio che, avvolto nella luce fioca di una specie di cripta funeraria, dove il cupo riflesso dei ceri fa brillare l’acciaio di due arcani monumenti (su uno dei quali troneggia una borsa impiegatizia che forse è quella famosa di Roberto Calvi o forse no: è solo il simbolo anonimo di tutte le burocrazie politico-affaristiche compromesse con la rendita politica), sprofonda a sua volta nell’infernum di un di un giudizio finale, incalzato dalla voce stentorea della giustizia in persona. E’ in questa differenza di colore morale, oltre che di registro – là si raccontava, qui si interpreta – che l’illuminismo di Riggi e il dostoevskismo dell’agonico personaggio di Faloppa, morto che parla, creatura pronta a ripiegarsi nella sua notte, sembrano dividere non solo due sensibilità ma addirittura due epoche della stessa memoria politica. Il fatto è che, a dispetto della voce fuori campo che ne struttura il dialogo – perentoria ma smaccatamente priva di qualità: una non-voce da riflusso esofageo della coscienza – Li corpi scuri non è uno spettacolo sulla puntualità della colpa ma sull’ambiguità della responsabilità e sull’estensione della complicità. E in questo senso, è tutto racchiuso in una delle risposte che quasi sfuggono dall’eloquio dormivegliante del suo singolare eroe: “voi non potete condannarmi, io non voglio assolvermi.” Le prove della corruzione che inquina i rapporti tra il pubblico e il privato, falsificando le condizioni del confronto democratico e portando allo snaturamento politico e all’implosione morale un piccolo partito (varrà la pena ricordarlo: il più antico e il primo in cui la classe operaia si organizza) non saranno mai all’altezza della diffusione del male che il giudizio dei giudici pretende di sradicare. Per questo tra gli inserimenti programmati nell’apocalittica evocazione di Faloppa, dove la corrosione ironica dei siparietti scherma un’impotenza triste, sfregiata, si insinua la vox clamans del Pasolini “parresiaste” (come lo ha definito Carla Benedetti) del romanzo delle stragi: è in quell’Io so scandito in brevi e ritmati colpi di maglio sulla corazza del Potere che la giustizia fa risuonare il suo paradosso che trascende i riscontri, vanficando alla radice ogni velleità di giacobinismo giudiziario (amici di Grillo e di Travaglio, leghisti e dipietristi della “pena certa” – leggete qua) che non si incarni in un processo di autoespiazione pubblica. Per questo, il “presidente” più volte evocato nella diafana confessione dell’ “uomo delle spalle strette” travestito da Faloppa, l’ex cinghialone dell’inchiesta Mani Pulite, è un’animale imprigionato nella passione esclusiva del potere (e con una chimica balzacchiana di passioni che si inseguono e si sostituiscono l’una con l’altra lo spiega intelligentemente l’ autore-attore) che alla fine è anche il capro espiatorio del sistema che ha perfezionato – vittima dei suoi stessi inganni, direbbe Shakespeare “come un lupo preso alla tagliola”. Per questo, il tono di verità di questi corpi scuri non va cercato tanto in quella rassegna di veri fatti che rotolano disastrosamente sulla reticenza, per altro mai completamente vinta, del protagonista, ma nella progressiva evanescenza della voce che li interiorizza ricostruendo attraverso di essi una malattia morale – la politica o sarebbe meglio dire l’iperpolitica, già sul punto di spettacolarizzarsi, degli anni Ottanta – che confonde coscienza e appartenenza, esistenza e partito, in un solo pseudo-concetto (non troppo lontano, toute proportion gardant, da quello che spingeva altri funzionari in altri tribunali a giustificare la propria collaborazione con il male con il senso del dovere burocratico). Stretto nelle spalle quasi si volesse incassare per sempre tra di esse, pallido, lamentoso e nel contempo arrogante, sfuggente e caustico – orrido eppure sincero come gli “insetti” dei romanzi di Dostoevskij – l’impiegato letteralmente immaginato da Faloppa è quasi un idealtipo weberiano provvisoriamente resuscitato sulla soglia di una definitiva archiviazione esistenziale: è tutto nella morale, poco nella psicologia, e mentre la sua confessione avanza, il suo corpo rachitico si restringe, seguendo il destino delle fiammelle dei lumini che spenge via via, come se la fedeltà politica che finalmente ha tradito fosse l’unica carne capace di rivestire la sua nullità. Piccola sonata di fantasmi, Li corpi scuri è un’evocazione spiritica così riuscita scenicamente, e tanto più straordinaria venendo da un interprete non ancora trentenne, dal farsi perdonare anche qualche incongruenza e alcune volute o involontarie ambiguità nel merito – mai nella forma – del suo racconto (i socialisti, ad esempio, non furono mai golpisti, e tanto meno potevano esserlo all’epoca di Borghese; e perché sottacere, a parte il cenno sul ’56, il senso profondo di quella rottura a sinistra che nel ’78 si tradusse nella differenza di atteggiamento, tra Pci e Psi, nei confronti del rapimento Moro?) Le derive della Storia che scuote ad ondate le pareti del sepolcro in cui i corpi scuri giacciono, del resto, sono ben lontane dall’esser decifrate, né gli spettri fugati. A suo modo, dividendosi tra la precisione del documento e il felice parossismo del monodramma, Faloppa racconta il crepuscolo della politica che non ha personalmente conosciuto, quella delle identità ideologiche prima corrotte e poi divelte, prima travolte e poi rimosse, dalla disinvoltura del Capitale post-modernista. A mio modo, guardando il suo spettacolo, ancora fremo di disagio per la parola “socialismo” che affonda senza più riemergere nel fango degli affari (questo oscuro sentimento, meno noto alla gioventù, si chiama disonore). Ma fin d’ora sia io che lui ce la dobbiamo vedere con la stessa post-democrazia che quel processo ha finito col produrre. |