Anno 1 Numero 21e Del 3 - 6 - 2008
Scenari indipendenti della critica
Corrispondenza formale tra un’artista e il suo più affezionato critico

Gian Maria Tosatti e Silvia Rampelli
 
Pubblichiamo di seguito una lettera di Silvia Rampelli, coreografa di Habillè d’Eau, pervenutaci nei giorni scorsi. Il suo ragionamento, che parte da un legittimo disaccordo con quella che è stata l’analisi compiuta da chi scrive sul suo ultimo lavoro, propone di fatto uno spunto estremamente interessante su uno scenario particolarmente delicato come quello costituito dal rapporto fra critica e scena. Di questa relazione complessa si è da sempre parlato e molto sparlato, ma, come nota la Rampelli, mutatis mutandis, a nuovi scenari del teatro corrispondono nuove e diversi rapporti con la critica. Lo scenario dipinto in questa lettera è cupo, ma in fondo coerente con la perversione che da sempre ha ispirato i due amanti imperfetti. La critica, spesso ha fatto molto male al teatro, specie nei momenti in cui si è pretesa come sistema di potere. La parola, spesso ha assunto un valore di sentenza che non gli era proprio. Cause molteplici vi hanno concorso. In primo luogo la legittimazione stessa che i gruppi hanno dato a critici di cui poi, nel privato pensavano tutto il male possibile. In secondo luogo il peso che gli operatori hanno dato agli articoli di giornale che in Italia sono diventati, di fatto, gli unici biglietti da visita che si possono portare a direttori di teatro che mai e poi mai si alzerebbero dalla loro poltrona per prendere un treno in direzione di chissà quale teatro di provincia o anche di Roma. Ma prima di questo, ciò su cui ci invita a riflettere la Rampelli, non è una rassegna di cause esterne. Al centro del suo invito c’è il nocciolo della questione, ossia il senso stesso della critica militante. L’anno scorso Giorgio Manacorda a questo tema dedicava un libro, un po’ sprezzante e un po’ scanzonato. Si intitola appunto Apologia del critico militante e tra le molte definizioni che egli dà di questa attività assai più spericolata e meno definitiva rispetto a quella del critico accademico, che affronta fatti e fenomeni già consegnati alla storia nel complesso della loro entità, egli paragona il critico all’artista, affermando che in entrambi vi è esercizio di quella qualità che si chiama intuizione. Una intuizione che Manacorda si spinge a dire addirittura poetica, per la sua pretesa o presunta capacità di definire appunto ciò che si manifesta prima di aver consumato il proprio attrito con il mondo e con la Storia. Forse lo scrittore e saggista arrotonda il proprio ragionamento per eccesso, mentre la Rampelli lo fa per difetto. Fatto sta che una questione c’è sul piatto e noi de La differenza avevamo già in mente di affrontarla in un prossimo futuro. Cogliamo allora la palla al balzo ed accettiamo la sfida della nostra interlocutrice epistolare a fare un’analisi di coscienza collettiva in un numero costruito proprio su questa tematica. Ci metteremo subito al lavoro e ci impegnamo a far uscire a breve il risultato. Nel frattempo però, visto che in questo spazio affrontiamo la questione in modo “informale”, si cercherà anche brevemente di rispondere per non lasciare nemmeno temporaneamente sospesi gli interrogativi sottintesi che ci sono stati rivolti come destinatari della corrispondenza. E allora si dirà che, a parere di chi scrive, il mondo della critica cui fa riferimento la Rampelli non è solo un circolo di frustrazioni. E’ vero che attualmente, a livello nazionale, c’è una folta schiera di signori di una certa età che probabilmente, non hanno molto più da dire, indipendentemente dal fatto che continuino a parlare. C’è poi chi non ha niente da dire semplicemente perché alla penna ci arriva senza argomenti, senza storia, senza intuizioni. Ma questi sono i casi limite. Per il resto, volendolo descrivere prima di averne fatto lo studio promesso, il mondo della critica attuale – specie quello che si rivolge all’universo del teatro contemporaneo e di quello che viene definito “teatro indipendente” – è una galassia di persone tanto diverse, ma tutte motivate da una grande passione e da una grande generosità. Non si possono sommare in un unico ritratto. Sono uomini e donne differenti, con storie diversissime e spesso con idee divergenti dagli stessi colleghi con cui condividono avventure editoriali. In questi numeri speciali realizzati per Teatri di Vetro 2008, La differenza si è avvalsa della collaborazione di due firme giovani della critica oltre al lavoro stabile dei suoi “effettivi”. E nelle diverse ricognizioni critiche da noi compiute in questa stagione abbiamo incontrato il lavoro di molti professionisti della parola. Certo ce li siamo scelti, ma in ognuno di loro chi dirige la rivista ha potuto riscontrare, prima ancora della competenza, la qualità della generosità verso il mondo dell’arte. Nessuno ha mai compiuto l’errore di imporre la propria scrittura come strumento dispotico di auto-emersione. E da un certo punto di vista la nostra impresa editoriale è forse quella che di più di tutte si riconosce nelle motivazioni che la Rampelli riconosce agli artisti nel voler andare oltre le categorie, oltre «la domanda ontologica», verso un’«autofondazione sempre interrogante». Lo testimonia il giovane archivo di un progetto che proprio in questi giorni compie un anno di vita. Come la storia di chi s’è preso la briga di parlare dello spettacolo della Rampelli testimonia una conoscenza profonda e una stima del percorso da lei compiuto in questi anni, dichiarate in molte occasioni con analisi puntuali. Dispiace allora se l’ultimo articolo, per una volta meno convinto, non si è meritato la stima conquistata attraverso i precedenti. Ma fa parte del gioco. A volte le visioni convergono, altre volte no. La ragione non sta né da una parte né dall’altra e neppure nel mezzo, essa è consegnata al tempo, che è l’unico abbastanza titolato per emettere sentenze. Buona lettura.


C’è qualcosa di impuro, di interessato, persino narcisistico nella parola critica pubblicata, quando questa non sia analisi puntuale del modo di costituirsi di un oggetto intenzionalmente posto, ma sia piuttosto affermazione di un dominio terminale, della sopraffazione della comunicazione sul farsi aurorale e potenziale del linguaggio. Il potere costitutivo del dire – laddove oppone l’esplicitato all’oggetto, in sé chiuso e dischiudente – si avvantaggia del venire sempre dopo il qualcosa di cui parla e sfrutta il suo ritardo nell’avere l’ultima e spesso l’unica definitiva parola.
Non è bastata l’interessantissima prospettiva gettata dall’articolo “Una finestra possibile sull’infinito” di Scarpellini nel numero 21 de “La differenza” per aprire una riflessione alta e implacata sulla sostanziale e additante caduta che è il teatro, sulla fragilità delle arti viventi e del suo oggetto preferenziale, la presenza incarnata, a scoraggiare il direttore della rivista stessa dal ruttare sentenze inesperte. Ed eccolo il critico sceriffo con la mano all’arma per imporre un ordine, nella migliore delle ipotesi, convenuto, ma come tristemente noto, spesso compulsivo e umorale.

Da un punto di vista metodologico, se il cammino delle arti performative si investe di un’indagine critica e tenta un’autofondazione sempre interrogante, stressando i cardini stessi dell’agire scenico fino a provocare autismo, silenzio, rigurgito, se arriva a mettere in questione la possibilità stessa di un orizzonte di senso per la scena – o di un senso eticamente possibile - avendo come oggetto principale di asserzione e negazione il corpo, è necessario, d’altra parte, che chi si assume il compito di decifrare tale percorso – il critico – sia almeno in grado di orientarsi negli elementari dell’atto. Vediamo invece anacronisticamente sfilare nelle sale l’insieme “A” dei critici di danza, l’insieme “B” dei critici di teatro, oltre a un drappello non pervenuto di inesauribili – all’evenienza drammaturghi, fotografi, editori, inventori – spesso incapaci di leggere la ricerca e l’innovazione specifica nella pratica del corpo, nel lavoro fisico, nella composizione, nella luce e – ancora peggio – spesso privi anche di ordinario buon senso: dove non arrivo, taccio.

Il teatro pone la domanda ontologica – quid est. Ciò che dispiega è un evento, un venire in essere – epifanicamente esatto e costitutivamente ambiguo, che ha la forza atomica e potenziale di squarciare l’entità individuale per ricombinarne la struttura in legame di collettività.
Il protagonista di tale accadimento è l’uomo che guarda, colui che senza interesse e senza possesso apre all’aperto. Manualetti e ideologia non servono.

Ma la questione è anche socialmente rilevante. Mi riferisco alla tendenza – vertiginosa nell’ultimo anno – della classe senza classe dei figuranti teatrali – cosiddetti artisti e critici – a incistarsi nel sistema. Come? Mappando e automappandosi in una disperata affermazione di esistenza e in pubblicazioni senza vita. Il critico allunga l’occhio nel territorio sempreverde del teatro indipendente e vi scorge individui e entità non tutelati da uffici stampa, commercialisti e intermediari, pronti a ricambiare qualsiasi attenzione con sguardi carichi di riconoscenza e meraviglia. E’ il terzo mondo dell’arte, dove puoi scambiare una vecchia penna che non scrive più con una forza lavoro dalla determinazione impressionante. Gente magrissima, che non trattiene nulla per sé e lavora in sotterranei senza finestre. Su questa indigenza prospera una propaganda nauseante e una economia precisamente strutturata e gerarchizzata, in cui il denaro circola, eccome.
E’ il critico stesso a dibattersi nel sotterraneo e pesta forte i piedi per farsi sentire.
Capovolgiamo per un momento il principio della libertà di espressione e proviamo a dire : “Posso io, oggetto muto, rifiutarmi di essere grossolanamente tradotto e sommariamente giustiziato da te, parola, impugnata per asserire un potere altrimenti indimostrabile perché tu, se non scrivi, non esisti?” Il qualcosa più imperfetto, che appaia anche solo pochi minuti in pubblico, dà pane e legittimazione a te, giornalista, ma non autorizza l’abuso di spazi di riflessione pubblica a fine personalistico e privato e sbanda drammaticamente il nostro sentire sociale nel perduto riconoscimento della cosa pubblica.
L’uso prevaricante della comunicazione non fa che dichiarare la propria matrice ideologica e un originario senso di inferiorità, la consapevolezza di dover presto o tardi rimettersi a quel sottostante di cui invano dice.
Nell’ambito delle arti impermanenti, la scrittura critica ha la responsabilità di resistere alla durata dell’oggetto, di eccederne la manifestazione. Sfida bellissima e impervia, cui accostarsi con spietatezza intellettuale e disciplina, scartando i parametri ordinariamente mediatici, il corporativismo, il narcisismo, le celebrazioni, il livore. La parola è annuncio e epigrafe.
In questa proiezione utopica e fatua che è il teatro non esiste possesso. Di principio non può esservi conflitto d’interessi. Le biografie rendono il segno della chiamata.
Con atto volontario la pratica artistica consegna i propri interrogativi all’oggetto e con essi il silenzio di un fondo insanato.
Osservo l’oggetto orfano darsi via, affidato al suo sé materia, raccogliere elogi e insulti, arrestarsi in un’ansa.
Vedo che mai l’oggetto esaurisce la domanda.
Mai la parola esaurisce l’oggetto.


Silvia Rampelli – Habillé d’Eau